Rock Impressions
 

20 ANNI DI INFORMAZIONE MUSICALE
Cittadino di un piccolo mondo in un Mondo Piccolo

Di Giancarlo Bolther

 

Vorrei iniziare questo articolo dicendo chi o cosa “non” sono, non sono un giornalista, né tanto meno un critico.
Non sono un giornalista perché ho un concetto molto alto di giornalismo e nel nostro paese, al di là dell’appartenenza o meno all’Ordine, credo ci siano rarissimi casi di persone che possono fregiarsi di questo titolo, soprattutto in ambito musicale. Essere “giornalisti” non è una targhetta, non è un titolo, non è un’appartenenza, ma è la capacità di raccontare l’oggettivo inserito in un contesto storico e sociologico, se non anche politico, e questo nella musica è molto importante, non si tratta solo di saper descrivere l’operato di un musicista, ma anche di saper spiegare perché un artista o un movimento musicale sono entrati nel cuore della gente, perché un fenomeno ha preso piede in un preciso momento storico, come l’evolversi del gusto musicale è innestato nella società, mentre troppo spesso si leggono articoli che seguono solo ed esclusivamente il gusto personale di chi scrive, come se questo fosse l’unico vero metro di giudizio del valore di un artista o del suo lavoro.
Non mi ritengo nemmeno un critico, perché non credo di avere le competenze per farlo. Anche il critico, se vuole essere tale, deve avere conoscenze che la maggior parte di chi scrive di musica pop (comprendendo in questa definizione tutti i generi di musica diversi dalla classica e dal jazz) non ha. Il critico deve approfondire aspetti tecnici per i quali serve una profonda conoscenza della musica e delle sue strutture, della storia della musica e dei suoi movimenti, un critico deve sapere che il “tapping” non l’ha inventato Eddie Van Halen e che non è nemmeno stato il primo ad applicarlo alla chitarra elettrica.

Fatte queste premesse e reduce dal quarto Forum del Giornalismo Musicale svoltosi a Faenza il 5 e 6 ottobre 2019 all’interno del MEI (Meeting delle Etichette Indipendenti), che ha raggiunto l’importante traguardo del venticinquesimo anno, sento il bisogno di fare un bilancio della mia esperienza come comunicatore, alla luce del confronto con molte realtà e molti “colleghi”. Innanzi tutto il mio sentito ringraziamento va all’ideatore e motore del forum, Enrico Deregibus, che ha trovato pieno supporto nel presidente del MEI Giordano Sangiorgi. Due persone che hanno dato un contributo enorme alla musica nel nostro paese.

Sono un grande fan dei Blue Öyster Cult e nel 1998 la band stava per pubblicare un nuovo album (Heaven Forbid) dopo tredici lunghi anni di silenzio discografico, escludendo Imaginos, che infatti doveva uscire a nome di Albert Bouchard, l’ex batterista. Volevo mettere le mani su una copia promozionale e Claudio Alberti, in arte Klaus Byron, storico capo redattore di Flash, mi disse che il prezzo per avere la copia promo sarebbe stato scrivere una recensione. Opposi che, in quanto fan, non sarei potuto essere obiettivo, ma replicò che se il pezzo non gli fosse piaciuto non l’avrebbe pubblicato. Seppi tempo dopo che ne aveva pronto anche uno di un collaboratore storico, ma ugualmente era stato scelto il mio e così, in modo abbastanza fortuito, scoprii che mi piaceva molto comunicare le mie emozioni di ascoltatore appassionato attraverso la carta stampata. La collaborazione con Flash è durata undici anni, fino alla sua chiusura. In seguito non trovai altre testate che mi davano la libertà e le garanzie di Flash, così scelsi il web dando grande impulso al sito Rock Impressions, che avevo già avviato nel 2003.

Nel 2016 un amico musicista mi chiese se volessi recensire il nuovo album della sua band su Rockerilla, un’altra volta un caso “fortuito” e non cercato, ed eccomi tornare sulla carta stampata, uno spazio che sicuramente trovo congeniale per molti motivi, anche perché scrivere per una testata così importante non è solo motivo di soddisfazione personale ma è anche un biglietto da visita che ha un certo valore aggiunto. Scrivere solo sul web a torto o a ragione è ancora ritenuto da molti dell’ambiente poco “professionale”.
Altre riviste a cui ho collaborato saltuariamente sono state Andromeda, Classix, Jam e Metal Shock.

In questi vent’anni di forte impegno, soprattutto emotivo, ho scritto più di tremila pezzi fra recensioni, approfondimenti, report di concerti e interviste. Testi scritti spesso a notte fonda, sulle forze, trovando spazio fra i mille impegni della vita “real” fatta di un lavoro da impiegato, di una famiglia con due figli da crescere, che sono diventati grandi di pari passo col mio impegno giornalistico, infatti la maggiore ha proprio vent’anni. E la ricerca di una vita sociale che fosse “altra” rispetto alle doverose frequentazioni musicali. I risultati sono stati molti e ancora di più le soddisfazioni, ma non sono mancati le ferite e gli incontri sgradevoli, soprattutto in ambito musicale. Tante persone che credevano in qualche misura che il loro piccolo mondo coincidesse con quello più ampio della vita.

Mi è capitato di essere trattato con superficialità e supponenza, come uno che cerca il modo di entrare gratis ai concerti o uno scroccone di dischi, quando in casa non so più nemmeno dove metterli e molti non riesco nemmeno ad ascoltarli. Ho dovuto elemosinare interviste mai concesse, come se il lavoro di promozione sia dovuto a qualche personaggio che crede che basti saper suonare uno strumento per essere un artista e diverse porte mi sono state chiuse, ma in fondo la verità è che me ne sono sempre infischiato.

In questi vent’anni ho incontrato tantissime persone di tutti i tipi, di tutte le latitudini e di tutti i generi musicali, dalla classica alla world music, dal metal estremo al jazz, dal blues del Mississippi alla cold wave, dal pop italiano alla faerie music. Sono stato chiamato a tenere numerose conferenze e sono entrato in contatto con molti dei miei eroi musicali. Ho avuto tante soddisfazioni, sicuramente più di quelle che mi sarei aspettato e qualcuna è andata molto oltre le mie aspettative. Come ad esempio quando mi è stata dedicata la canzone “Lost Highway” scritta da Erik Norlander insieme a Donald Roeser (storico cantante e chitarrista dei BÖC) pubblicata sull’album Music Machine del 2003. Tanti sono gli aneddoti che potrei raccontare. Senza dimenticare che mia figlia ascolta molta musica tra cui Bowie, Reed, Abba, Green Day, My Chemical Romance. Mio figlio suona il basso in tre gruppi ed è un appassionato di punk e di rock in generale, ma stravede anche per Guccini e De André. Poi l’amicizia con Carlo Basile, che era il discografico italiano di artisti come gli Who e David Bowie. Infine la gratitudine di lettori, musicisti ed operatori, davvero ho molti ricordi di cui faccio tesoro.

Quando Enrico Deregibus mi ha chiesto di partecipare al forum del giornalismo musicale per me è stato uno di questi momenti importanti, una ulteriore forma di riconoscimento di un lavoro molto spesso silenzioso e consumato all’interno di una stanza solitaria in una forma di isolamento davanti ad un freddo computer. Però sappiamo tutti di come il mondo dell’editoria sia in crisi, la gente legge sempre meno, non si vendono più le riviste e i giornali, diverse testate storiche hanno chiuso, gli stipendi dei giornalisti (quando ci sono) sono da fame. Intanto il pubblico più giovane si sta orientando verso nuove forme di comunicazione che non garantiscono la qualità e la preparazione di chi scrive. Oggi anche i siti internet sono in recessione, del resto i più giovani (qualche volta lo facciamo anche noi più “aged”) navigano con gli smartphone e non hanno più nemmeno il computer a casa, il totem che ha aperto il mondo globale a molti di noi. Le recensioni si sono fatte sempre più brevi, talvolta solo di alcune righe, quante ne può contenere il minuscolo video di un telefonino. Altri colleghi stanno tentando la via delle recensioni video, senza sapere che l’utente medio presta solo una manciata di secondi al tuo lavoro, se lo catturi nei primi 3-4 secondi ce l’hai fatta, altrimenti l’hai perso.

Ad ogni edizione del forum mi sono reso conto di come il nostro mondo sia un Mondo Piccolo (mi piace ricordare Guareschi), fatto di gente che si crede qualcuno sulla base di convinzioni molto discutibili. Ho incontrato “giornalisti” che trattano con irritazione i “dilettanti” (quelli come me, che scrivono di musica senza appartenere all’ordine dei giornalisti), come dei furbetti che “rubano” il lavoro ai veri professionisti, e pensare che ho sentito un veterano illustre come Massarini dire una castroneria formidabile sui Doobie Brothers in una puntata di Ghiaccio Bollente. Fino a sentire all’edizione di quest’anno due artiste annoiate rispondere con sufficienza alle domande di Deregibus, e trattare i giornalisti come gente noiosa ai limiti dell’inutilità (tra qualche anno potrebbero anche avere ragione), sottolineando in più occasioni la mancanza di professionalità che hanno riscontrato nella loro lunga carriera. Tra l’altro devo riconoscere che sul palco mi hanno veramente impressionato per la loro bravura.

Già, la “professionalità”… Al forum se ne è discusso parecchio e i più “esperti” giù a sentenziare come ci si deve preparare alle interviste: primo, bisogna conoscere molto bene l’inglese a prescindere. Secondo, bisogna conoscere bene l’artista intervistato, quindi possibilmente tutta la sua discografia. Terzo, bisogna evitare le domande sciocche (per come la penso io una domanda non è mai banale, ma banali e molto possono essere le risposte). Quarto, bisogna conoscere la storia della musica, almeno quella contemporanea, cioè almeno a partire dagli anni ’50 in poi… la stessa che ha formato l’artista intervistato.

Ma nessuno si è mai chiesto quanto costa in termini di tempo e di soldi acquisire tutte queste informazioni e conoscenze. Molti giornalisti “storici” hanno avuto la fortuna di vivere in prima persona tutto il divenire di questi fenomeni, per cui in modo molto naturale hanno acquisito gran parte delle conoscenze sopra elencate, ma molti, anzi moltissimi non hanno questa possibilità. Che ne sa un quarantenne o un trentenne del beatnik? Di cosa ci sta dietro, della rivoluzione culturale che ha sconvolto gli anni a venire? Di come questa ha influito su tutte le arti figurative e quindi anche la musica?
Che ne sa un giovane dell’atmosfera degli anni ’70 in Italia? O del perché i Beatles sono stati importanti?
Certo si può informare e studiare, ma quanto tempo ci vorrebbe per acquisire tutte le informazioni ovviamente necessarie?

Ma la domanda fondamentale è “perché?”
Perché un giornalista musicale per essere riconosciuto come tale deve farsi tutto questo bagaglio culturale? Per far fare bella figura agli artisti di turno? Per far fare bella figura ad una testata a cui collabora? Per far vendere qualche disco in più ad una casa discografica? Per avere una targhetta che non vale nulla?
Va detto che ad oggi in cambio non c’è nemmeno lontanamente la possibilità di trasformare il giornalismo musicale in un lavoro vero e remunerativo e le soddisfazioni e i ricavi sono alla fine di tutt’altra natura. Non voglio sembrare pessimista, quello che espongo è semplicemente un dato di fatto.

Io posso dire dopo vent’anni che ne valeva la pena, che rifarei tutto e che voglio andare avanti, ma provo anche una certa amarezza per un settore che vedo non avere un futuro roseo, almeno non nel breve.


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