Vorrei iniziare
questo articolo dicendo chi o cosa “non” sono, non sono
un giornalista, né tanto meno un critico.
Non sono un giornalista perché ho un concetto molto alto di
giornalismo e nel nostro paese, al di là dell’appartenenza
o meno all’Ordine, credo ci siano rarissimi casi di persone
che possono fregiarsi di questo titolo, soprattutto in ambito musicale.
Essere “giornalisti” non è una targhetta, non è
un titolo, non è un’appartenenza, ma è la capacità
di raccontare l’oggettivo inserito in un contesto storico e
sociologico, se non anche politico, e questo nella musica è
molto importante, non si tratta solo di saper descrivere l’operato
di un musicista, ma anche di saper spiegare perché un artista
o un movimento musicale sono entrati nel cuore della gente, perché
un fenomeno ha preso piede in un preciso momento storico, come l’evolversi
del gusto musicale è innestato nella società, mentre
troppo spesso si leggono articoli che seguono solo ed esclusivamente
il gusto personale di chi scrive, come se questo fosse l’unico
vero metro di giudizio del valore di un artista o del suo lavoro.
Non mi ritengo nemmeno un critico, perché non credo di avere
le competenze per farlo. Anche il critico, se vuole essere tale, deve
avere conoscenze che la maggior parte di chi scrive di musica pop
(comprendendo in questa definizione tutti i generi di musica diversi
dalla classica e dal jazz) non ha. Il critico deve approfondire aspetti
tecnici per i quali serve una profonda conoscenza della musica e delle
sue strutture, della storia della musica e dei suoi movimenti, un
critico deve sapere che il “tapping” non l’ha inventato
Eddie Van Halen e che non è nemmeno stato il primo ad applicarlo
alla chitarra elettrica.
Fatte queste premesse e reduce dal quarto Forum del Giornalismo Musicale
svoltosi a Faenza il 5 e 6 ottobre 2019 all’interno del MEI
(Meeting delle Etichette Indipendenti), che ha raggiunto l’importante
traguardo del venticinquesimo anno, sento il bisogno di fare un bilancio
della mia esperienza come comunicatore, alla luce del confronto con
molte realtà e molti “colleghi”. Innanzi tutto
il mio sentito ringraziamento va all’ideatore e motore del forum,
Enrico Deregibus, che ha trovato pieno supporto nel presidente del
MEI Giordano Sangiorgi. Due persone che hanno dato un contributo enorme
alla musica nel nostro paese.
Sono un grande fan dei Blue Öyster Cult e nel 1998 la band stava
per pubblicare un nuovo album (Heaven Forbid) dopo tredici lunghi
anni di silenzio discografico, escludendo Imaginos, che infatti doveva
uscire a nome di Albert Bouchard, l’ex batterista. Volevo mettere
le mani su una copia promozionale e Claudio Alberti, in arte Klaus
Byron, storico capo redattore di Flash, mi disse che il prezzo per
avere la copia promo sarebbe stato scrivere una recensione. Opposi
che, in quanto fan, non sarei potuto essere obiettivo, ma replicò
che se il pezzo non gli fosse piaciuto non l’avrebbe pubblicato.
Seppi tempo dopo che ne aveva pronto anche uno di un collaboratore
storico, ma ugualmente era stato scelto il mio e così, in modo
abbastanza fortuito, scoprii che mi piaceva molto comunicare le mie
emozioni di ascoltatore appassionato attraverso la carta stampata.
La collaborazione con Flash è durata undici anni, fino alla
sua chiusura. In seguito non trovai altre testate che mi davano la
libertà e le garanzie di Flash, così scelsi il web dando
grande impulso al sito Rock Impressions, che avevo già avviato
nel 2003.
Nel 2016 un amico musicista mi chiese se volessi recensire il nuovo
album della sua band su Rockerilla, un’altra volta un caso “fortuito”
e non cercato, ed eccomi tornare sulla carta stampata, uno spazio
che sicuramente trovo congeniale per molti motivi, anche perché
scrivere per una testata così importante non è solo
motivo di soddisfazione personale ma è anche un biglietto da
visita che ha un certo valore aggiunto. Scrivere solo sul web a torto
o a ragione è ancora ritenuto da molti dell’ambiente
poco “professionale”.
Altre riviste a cui ho collaborato saltuariamente sono state Andromeda,
Classix, Jam e Metal Shock.
In questi vent’anni di forte impegno, soprattutto emotivo, ho
scritto più di tremila pezzi fra recensioni, approfondimenti,
report di concerti e interviste. Testi scritti spesso a notte fonda,
sulle forze, trovando spazio fra i mille impegni della vita “real”
fatta di un lavoro da impiegato, di una famiglia con due figli da
crescere, che sono diventati grandi di pari passo col mio impegno
giornalistico, infatti la maggiore ha proprio vent’anni. E la
ricerca di una vita sociale che fosse “altra” rispetto
alle doverose frequentazioni musicali. I risultati sono stati molti
e ancora di più le soddisfazioni, ma non sono mancati le ferite
e gli incontri sgradevoli, soprattutto in ambito musicale. Tante persone
che credevano in qualche misura che il loro piccolo mondo coincidesse
con quello più ampio della vita.
Mi è capitato di essere trattato con superficialità
e supponenza, come uno che cerca il modo di entrare gratis ai concerti
o uno scroccone di dischi, quando in casa non so più nemmeno
dove metterli e molti non riesco nemmeno ad ascoltarli. Ho dovuto
elemosinare interviste mai concesse, come se il lavoro di promozione
sia dovuto a qualche personaggio che crede che basti saper suonare
uno strumento per essere un artista e diverse porte mi sono state
chiuse, ma in fondo la verità è che me ne sono sempre
infischiato.
In questi vent’anni ho incontrato tantissime persone di tutti
i tipi, di tutte le latitudini e di tutti i generi musicali, dalla
classica alla world music, dal metal estremo al jazz, dal blues del
Mississippi alla cold wave, dal pop italiano alla faerie music. Sono
stato chiamato a tenere numerose conferenze e sono entrato in contatto
con molti dei miei eroi musicali. Ho avuto tante soddisfazioni, sicuramente
più di quelle che mi sarei aspettato e qualcuna è andata
molto oltre le mie aspettative. Come ad esempio quando mi è
stata dedicata la canzone “Lost Highway” scritta da Erik
Norlander insieme a Donald Roeser (storico cantante e chitarrista
dei BÖC) pubblicata sull’album Music Machine del 2003.
Tanti sono gli aneddoti che potrei raccontare. Senza dimenticare che
mia figlia ascolta molta musica tra cui Bowie, Reed, Abba, Green Day,
My Chemical Romance. Mio figlio suona il basso in tre gruppi ed è
un appassionato di punk e di rock in generale, ma stravede anche per
Guccini e De André. Poi l’amicizia con Carlo Basile,
che era il discografico italiano di artisti come gli Who e David Bowie.
Infine la gratitudine di lettori, musicisti ed operatori, davvero
ho molti ricordi di cui faccio tesoro.
Quando Enrico Deregibus mi ha chiesto di partecipare al forum del
giornalismo musicale per me è stato uno di questi momenti importanti,
una ulteriore forma di riconoscimento di un lavoro molto spesso silenzioso
e consumato all’interno di una stanza solitaria in una forma
di isolamento davanti ad un freddo computer. Però sappiamo
tutti di come il mondo dell’editoria sia in crisi, la gente
legge sempre meno, non si vendono più le riviste e i giornali,
diverse testate storiche hanno chiuso, gli stipendi dei giornalisti
(quando ci sono) sono da fame. Intanto il pubblico più giovane
si sta orientando verso nuove forme di comunicazione che non garantiscono
la qualità e la preparazione di chi scrive. Oggi anche i siti
internet sono in recessione, del resto i più giovani (qualche
volta lo facciamo anche noi più “aged”) navigano
con gli smartphone e non hanno più nemmeno il computer a casa,
il totem che ha aperto il mondo globale a molti di noi. Le recensioni
si sono fatte sempre più brevi, talvolta solo di alcune righe,
quante ne può contenere il minuscolo video di un telefonino.
Altri colleghi stanno tentando la via delle recensioni video, senza
sapere che l’utente medio presta solo una manciata di secondi
al tuo lavoro, se lo catturi nei primi 3-4 secondi ce l’hai
fatta, altrimenti l’hai perso.
Ad ogni edizione del forum mi sono reso conto di come il nostro mondo
sia un Mondo Piccolo (mi piace ricordare Guareschi), fatto di gente
che si crede qualcuno sulla base di convinzioni molto discutibili.
Ho incontrato “giornalisti” che trattano con irritazione
i “dilettanti” (quelli come me, che scrivono di musica
senza appartenere all’ordine dei giornalisti), come dei furbetti
che “rubano” il lavoro ai veri professionisti, e pensare
che ho sentito un veterano illustre come Massarini dire una castroneria
formidabile sui Doobie Brothers in una puntata di Ghiaccio Bollente.
Fino a sentire all’edizione di quest’anno due artiste
annoiate rispondere con sufficienza alle domande di Deregibus, e trattare
i giornalisti come gente noiosa ai limiti dell’inutilità
(tra qualche anno potrebbero anche avere ragione), sottolineando in
più occasioni la mancanza di professionalità che hanno
riscontrato nella loro lunga carriera. Tra l’altro devo riconoscere
che sul palco mi hanno veramente impressionato per la loro bravura.
Già, la “professionalità”… Al forum
se ne è discusso parecchio e i più “esperti”
giù a sentenziare come ci si deve preparare alle interviste:
primo, bisogna conoscere molto bene l’inglese a prescindere.
Secondo, bisogna conoscere bene l’artista intervistato, quindi
possibilmente tutta la sua discografia. Terzo, bisogna evitare le
domande sciocche (per come la penso io una domanda non è mai
banale, ma banali e molto possono essere le risposte). Quarto, bisogna
conoscere la storia della musica, almeno quella contemporanea, cioè
almeno a partire dagli anni ’50 in poi… la stessa che
ha formato l’artista intervistato.
Ma nessuno si è mai chiesto quanto costa in termini di tempo
e di soldi acquisire tutte queste informazioni e conoscenze. Molti
giornalisti “storici” hanno avuto la fortuna di vivere
in prima persona tutto il divenire di questi fenomeni, per cui in
modo molto naturale hanno acquisito gran parte delle conoscenze sopra
elencate, ma molti, anzi moltissimi non hanno questa possibilità.
Che ne sa un quarantenne o un trentenne del beatnik? Di cosa ci sta
dietro, della rivoluzione culturale che ha sconvolto gli anni a venire?
Di come questa ha influito su tutte le arti figurative e quindi anche
la musica?
Che ne sa un giovane dell’atmosfera degli anni ’70 in
Italia? O del perché i Beatles sono stati importanti?
Certo si può informare e studiare, ma quanto tempo ci vorrebbe
per acquisire tutte le informazioni ovviamente necessarie?
Ma la domanda fondamentale è “perché?”
Perché un giornalista musicale per essere riconosciuto come
tale deve farsi tutto questo bagaglio culturale? Per far fare bella
figura agli artisti di turno? Per far fare bella figura ad una testata
a cui collabora? Per far vendere qualche disco in più ad una
casa discografica? Per avere una targhetta che non vale nulla?
Va detto che ad oggi in cambio non c’è nemmeno lontanamente
la possibilità di trasformare il giornalismo musicale in un
lavoro vero e remunerativo e le soddisfazioni e i ricavi sono alla
fine di tutt’altra natura. Non voglio sembrare pessimista, quello
che espongo è semplicemente un dato di fatto.
Io posso dire dopo vent’anni che ne valeva la pena, che rifarei
tutto e che voglio andare avanti, ma provo anche una certa amarezza
per un settore che vedo non avere un futuro roseo, almeno non nel
breve.
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