Il titolo della terza traccia di “Australasia” suggerisce
l’appellativo adatto a definire i contenuti del più recente
parto artistico degli Hiroshima Mon Amour: suggestivo. Una miscela
perfetta che rimanda agli anni settanta (l’opener “Ossessione”),
ma riafferma l’identità di un gruppo che ha sempre interpretato
con gusto peculiare i canoni “classici” della new-wave.
Interprete fedele di un suono e di una tradizione gloriosa, il quartetto
incardina l’uso della madrelingua in un contesto espressivo
di respiro internazionale, incastonato in un presente in continuo
mutamento, dimostrandosi pronto ad affrontare le sfide più
probanti; più d’una delle nove canzoni che compongono
la variegata track-list di “Australasia” sarebbe meritevole
dell’attenzione dei responsabili della programmazione delle
emittenti radiofoniche nazionali. Uso il condizionale, considerato
che è assai probabile che “Australasia” rimanga
pur troppo patrimonio di pochi. Perché necessita di impegno,
di “sforzarsi” a compenetrarne il valore. Esplorarlo,
compiere un viaggio (il tema lirico fondante è quello del ritorno
al passato, percorso intimo che Carlo Furii compie, identificando
in quella vasta porzione della nostra Terra fra Australia, Nuova Zelanda
e parte del Pacifico ove egli ha vissuto da giovane una regione che
non è solo materia, ma pure luogo ideale ove albergano i fantasmi
di un passato che ritorna sempre, ed in questo mi riconosco…),
lasciare il noto per il non conosciuto… Certo che l’esperienza
accumulata in venti anni e più di attività (l’origine
dell’insieme risale al ’94) ha il suo peso, e viene prontamente
messa a frutto dai nostri.
E’ “Suggestione”, alla quale mi riferisco in apertura
di pezzo, a segnare uno dei punti più alti in quanto ad efficacia:
un brano attraversato da una vena malinconica che screzia una melodia
intrigante, attuando il totale coinvolgimento dell’ascoltatore.
Perfettamente amalgamate fra loro, le personalità di ogni singolo
musicista fanno emergere la componente corale di “Australasia”:
la voce e le tastiere di Carlo Furii, il basso di Marcello Malatesta
(lui pure alla voce ed alle tastiere), la chitarra di Massimo Di Gaetano
e la batteria di Livio Rapini sono gli elementi che, fusi in un tutt’uno,
generano episodi come “Disco” ed “Asia”, canzoni
dai contenuti ben delineati ed evidentemente generati dalla stessa
matrice. E’ questa la forza (oltre che la costanza, che non
può difettare ad un complesso come gli HMA, nome storico che
echeggia glorie nazionali ed internazionali della new-wave) di questo
insieme, eccellente rappresentante di un sottobosco assai ricco di
valori, che cerca ispirazione nel passato senza cedere al fascino
umbratile della nostalgia, e tanto meno incamminarsi lungo la facile
via dell’imitazione pedissequa.
Poeti dei nostri giorni, gli HMA rappresentano un piccolo segreto
da custodire con cura (ma non mi dispiacerebbe vederli calcare palchi
prestigiosi), ma anche da condividere con chi voglia rendersi partecipe
di un messaggio sonoro raffinato ma universale. “Io sono qui”
chiude “Australasia”, e ci lascia col campionamento di
un aereo al decollo: destinazione lontana, ove il passato si ricongiunge
a noi… AM
PS: mi permetto di suggerirvi una visita al sito di Danze Moderne:
etichetta validissima, sorretta da un genuino spirito indipendente,
tra ricerca, passione e… coraggio. Bravi!
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