Ascoltare un album di Martin Barre per me è come fare una rimpatriata
con un vecchio amico, uno di quelli che conosci da una vita anche
se non lo vedi molto spesso, di quelli che nonostante il tempo li
abbia allontanati rimane quel feeling per cui basta uno sguardo per
ritrovare l’intesa perduta.
Barre, per chi non lo sapesse, è il fedele compagno di Ian
Anderson negli storici Jethro Tull. Una band che ha sollevato più
di una polemica e che non è mai stata molto amata dalla critica,
ma che conserva uno stuolo di fans particolarmente devoti, basta andare
ad un loro concerto per rendersene conto.
Ora anche lui si è accasato nell’etichetta di quel marpione
di Steve Vai, una compagnia che in fatto di eroi della sei corde non
sbaglia un colpo. Quindi c’è più di un motivo
per desiderare di ascoltare questo album. Ed in effetti l’esuberanza
musicale di Martin emerge con decisione fin dal primo di una serie
di quattordici brani di cui solo uno è cantato. Ogni traccia
è suonata con una chitarra diversa e ovviamente offre un taglio
differente sui suoni che si possono ricavare da questo incredibile
strumento. Si passa con agilità dall’elettrica per antonomasia:
la prestigiosa Gibson Les Paul, all’acustica sognata da ogni
chitarrista: la Taylor Acoustic, ma troviamo anche il Bouzouki, il
mandolino, altre Gibson, le Manson e poteva mancare forse la mitica
Fender Stratocaster? Insomma dei veri strumenti da sogno e la musica
che ascoltiamo riflette la ricchezza strumentale. Barre non delude
e colleziona una serie di ballate ora elettriche e viscerali, ora
dolci e intimiste dove da prova della sua grande maestria. Una tecnica
raffinata e tanto cuore. Qualche passagio ricorda i Jethro, ma per
lo più c’è una grande varietà di situazioni
che si può trovare un po’ di tutto.
Martin, per il suo rapporto simbiotico con Anderson, potrebbe ingiustamente
essere considerato un “gregario”, ma questo disco ci permette
di apprezzare tutta la sua bravura e ci restituisce un artista completo
e affascinante. GB
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