Era da molto che mi volevo occupare dei Crack the Sky, che credo siano
veramente poco conosciuti dalle nostre parti, infatti non li sento
mai nominare nei circuiti di appassionati e i loro dischi sono abbastanza
rari. Eppure sono insieme dai primi anni settanta e hanno già
pubblicato oltre venti album in studio. Il motore della band è
il cantante, chitarrista e tastierista John Palumbo, che è
uno dei membri più longevi, anche se era uscito fra il ’78
e l’80. Provengono dalla regione West Virginia, una terra che
sembra lontana anni luce dal tipo di musica proposto da questi artisti,
il prog. Quando si pensa all’America sembra quasi che nessuno
sia stato capace di lasciare il segno in questa branca della musica
rock. Eppure abbiamo avuto nomi illustri come Pavlov’s Dog,
Happy the Man, Styx, Rush, più recentemente Echolyn, Cast e
Rocket Scientists, ma niente, sembra che il prog americano (non intendo
solo gli USA) non sia considerato.
I Crack the Sky con la loro lunga storia meritano di essere conosciuti
ed apprezzati. Hanno alle spalle una tradizione importante, con album
di ottimo spessore, pertanto vi invito sinceramente a scoprirli. Questo
ultimo disco è la conferma di quanto scritto sopra. Il sound
è fresco, nervoso, molto lontano dalle produzioni a cui siamo
abituati, tuttavia se accettiamo la sfida di ascoltare senza pregiudizi
qualcosa di “nuovo”, troveremo molti spunti interessanti.
Il disco si apre con un brano che mescola melodie americane ad un
ritmica incalzante e genera un senso di allarme e inquietudine. Suoni
postmoderni e non convenzionali, il pezzo dimostra subito la personalità
della band. La title track è il brano radiofonico che non può
mancare. Anche in questo caso non si tratta di musica banale o di
facile presa, le melodie sono ficcanti, entrano subito in testa, ma
il tessuto è ricco di sonorità con molte sovrapposizioni
di voci, il risultato è sicuramente originale. “Raining
Rain” mostra il lato più hard dei Crack the Sky, la base
è un torrido blues, che diventa progressivo per i suoni non
convenzionali. “Red Rosary” è una ballad piacevole,
ma che aggiunge poco. Con “Hit” si riprende a giocare
coi suoni e con un modo personale di scrivere musica, la band suona
alla grande, di sicuro chi si aspetta un prog di stampo classico resterà
molto deluso, i CTS guardano al futuro e scrivono musica che non è
facilmente etichettabile o accostabile, creano atmosfere e groove
pieni di tensione, ma con un’attenzione tutta americana alla
melodia. Questo vale anche per il brano “Big Dipper” che
dimostra tutto il valore di questi artisti, uno dei momenti più
alti del disco. Senza fare un resoconto di ogni singolo brano quello
che colpisce è la voglia di fare musica che sia moderna, complessa
e piacevole da ascoltare.
Il lato americano come avrete capito non manca e questo non piacerà
a chi ama la musica molto oscura e ostica, però i CTS sono
una band eccellente e non mancheranno di piacere a coloro che cercano
svago in un contesto artisticamente di grande spessore. GB
|