INTERVISTA
AI DUFRESNE di Ilaria Rebecchi Dufresne: rinascimento musicale atteso e coerenza intellettuale I Dufresne sono una delle perle rare della musica alternativa italiana. Giunti al secondo album, “Lovers”, uscito ad Aprile, si destreggiano in live corposi e d’effetto sviscerando tutta la carica esplosiva ed originale che ne è sostanza prima. Un misto tra hardcore, rock classico e sperimentazione elettronica, che fa di loro una delle top band della scena musicale italiana, per nulla vittime di consumistici inganni commerciali, né d’un disco che suona fortemente bene al punto da pensare che non sia farina del loro sacco. Invece c’è da stupirsi ad ogni performance, perché la band riesce a riproporre senza sbavature ogni brano dei due album della propria carriera, al punto da far appassionare persino i più scettici o meno adepti del genere. . “Lovers” è un insieme di canzoni che ha come filo conduttore l’amore, in senso lato del termine, inteso come passione nei confronti di ciò che accresce e deteriora. Parla di vita reale che gira nelle orecchie con il vortice spronante della musica da loro proposta, tra chitarre pesanti, ritmi incessanti, una voce intensa e l’elettronica ad addolcire e innovare il tutto. La band, impegnata in un lungo tour in giro per l’Italia, anche in apertura dei Linea77 (perfetti maestri dei 5 veneti, come è azzeccata la proposta dei live insieme) è formata da Nicola Cerantola (voce), Luca Dal Lago (chitarra), Matteo Tabacco (basso e seconda voce), Alessandro Costa (tastiere e synth) e Davide Zenorini alla batteria. Ho incontrato Davide e Matteo nel backstage di un live a Brescia, per una notevole chiacchierata sull’evoluzione socio-culturale della musica ai nostri giorni. |
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“Lovers” è il vostro secondo album, e arriva a poca distanza dal primo, “Atlantic”. Quali sono le differenze effettive a livello tecnico e di scrittura dei due lavori? Matteo: Principalmente la più grande differenza è proprio che “Lovers” è stato composto in un tempo minore, ed avendo ben in mente un obiettivo finale da raggiungere, ed effettivamente possiamo dire d’esserci riusciti appieno. “Atlantic” è stato il nostro primo full length, scritto dopo parecchi anni di lavoro, perciò dotato di differenti sfumature ma non al livello di “Lovers” che al contrario ha un filo conduttore ed un’area ben delineata a racchiuderne il senso primo. Inoltre abbiamo potuto approfondire sia il nostro aspetto melodico sia quello ritmico, rendendo così le parti melodiche molto fruibili e quelle ritmate più pesanti e dirette. Sicuramente è stata la conseguenza dell’esperienza che abbiamo accumulato nel corso degli anni in particolare nei live italiani ed esteri. Inoltre dal punto di vista delle liriche abbiamo sviluppato tematiche esistenziali e sociali, spesso anche vissute in prima persona, approfondendo il lavoro fatto con “Atlantic” Anche voi, come tantissime band italiane, specialmente rock-hardcore, siete andati negli Stati Uniti a registrare. Come mai? E quale è stata la differenza tra la produzione americana e quella made in Italy? Davide: Fondamentalmente perché per avvicinarci a certi tipi di sonorità bisogna in effetti andare là dove sono nati. E’ stato anche da sempre un nostro piccolo sogno, quello di poter sperimentare in America. Abbiamo avuto l’ottima occasione di produrre il disco al Red Planet Studios di Richmond, in Virginia, e la casa discografica ci ha supportati in questo, così abbiamo deciso di approfittarne. Dal punto di vista tecnico, in effetti non è detto che andando in America ci sia superiorità in confronto all’Italia, noi più che altro abbiamo cercato il produttore in primis, e da lì è partito il progetto. Un mese in America è stata un’esperienza incredibile. E’ inutile però dire che c’è una netta differenza tra qui e laggiù in ambito musicale. A volte sembra che stiamo crollando giorno dopo giorno. In molte cose in Italia siamo di sicuro migliorati, nella tecnica prima di tutto e siamo riusciti ad entrare maggiormente nei meccanismi del marketing musicale, questo è da riconoscere, ma siamo ancora lontani anni luce nel supporto reale alla musica italiana, nello stanziamento dei fondi statali che non esistono, nell’organizzazione degli eventi, nell’arte in generale effettivamente. Il sogno americano a livello musicale è insito in ogni artista, perché spesso è la base da cui sono partite moltissime innovazioni e ricerche sperimentali. |
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Nell’album “Lovers” è presente una canzone che esce dal coro rispetto alle altre, per diversità stilistica e musicale, ovvero “Mina”, una ballata elettronica. Come è nata la scelta di inserire un brano così diverso? Rappresenta una svolta? Matteo: Noi abbiamo fatto spesso altri pezzi elettronici in effetti. E’ sempre stato un pallino di Davide e di Alessandro, ma prima di “Lovers” non avevamo mai inserito nessuno di quei brani nel nostro repertorio. All’inizio c’è stata un a perplessità generale per la diversità d’impatto che “Mina” avrebbe apportato. Ma credo abbia funzionato più che bene, anche per staccare e dividere idealmente l’album, e per proporre così una nostra sconosciuta sfaccettatura. “Mina” è decisamente più pacata rispetto alle altre canzoni dell’album, ma ha un fondo quasi oscuro che richiama al resto. E’ un lato diverso dei Dufresne in pratica. Davide: E’ stata anche una provocazione, nel senso che abbiamo voluto stravolgere un po’ i canoni che ci si potevano aspettare. All’inizio tutti noi ci siamo chiesti se stavamo facendo un passo sbagliato, ma poi ce ne siamo convinti, dando alla canzone un tono non italiano e commerciale, ma rendendola più cupa ed effettata, non lineare. La voce è poco pulita per esempio, un po’ all’inglese per intenderci. Può essere che in futuro sperimenteremo ulteriormente questo assaggio che abbiamo voluto dare, come potremmo anche fermarci qui. L’importante è che sia una cosa naturale. Che ne pensate dei nuovi mezzi di comunicazione/sponsorizzazione multimediale, myspace ed i-tunes in primis? Matteo: Secondo me il problema reale è che la qualità si è abbassata ahimè. Tecnicamente siamo migliorati è vero, ma questo porta spesso tante band, anche scadenti, a poter usufruire degli stessi veicoli di auto-pubblicità di chi realmente sa suonare ottimamente anche dal vivo e di chi ha talento. I computer aiutano come fino a 10 anni fa sembrava impossibile. Il problema di myspace è che a volte ci sono band che prima si occupano proprio della costruzione della loro pagina, tra belle foto e bella grafica, e soloin seguito del reale contenuto musicale da proporre, e questo a parer mio è allucinante. Una band deve fare musica, bella musica, prima del resto. C’è da dire che però è un geandioso metodo, gratuito, per farsi conoscere velocemente da tantissima gente, quindi è ottimo sotto questo punto di vista. Bisognerebbe però avere la base prima di auto-candidarsi. Davide: Non è un problema myspace di per sé, ma è la conseguenza dell’evoluzione del mercato. Noi abbiamo il myspace da anni, e all’inizio era un fenomeno di nicchia per band principalmente hardcore, appunto. Adesso è un po’ degenerata la situazione. L’uso intelligente è importante e all’inizio ed in fase promozionale può essere veramente molto utile, basta però che il tutto non si concluda proprio in esso. Ci sono dimensioni vere e più importanti, come i dischi fisici e i live, in cui le band possono effettivamente dimostrare le loro capacità e fronteggiare il pubblico capendo se e dove sbagliano. Tutti focalizzano la propria attenzione solo su questo invece, e la qualità ne risente, e si vede purtroppo. |
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Di conseguenza qual è il vostro pensiero sulla scena musicale italiana attuale? Davide: Per me la band regina in Italia è Il Teatro Degli Orrori. L’unico gruppo, che possano piacere o meno, che ha portato una tangibile innovazione musicale, senza troppi supporti modaioli o di stile. Hanno un suono preciso e riconoscibile. Tra le band nuove hardcore/screamo e via dicendo a volte mi sembra di sentire un unico suono per tutte, l’una a copia dell’altra. Poi ci sono band finte rock che badano più alla forma che alla sostanza purtroppo, e sembra anche che la martellante sponsorizzazione di questi sia un abuso e un insulto all’intelligenza del pubblico, che invece si accorge benissimo quando la qualità c’è. Forse purtroppo non esiste una reale scena musicale italiana ad oggi, ci sono tipologie di gruppi differenti. Matteo: E’ vero. Poi è triste vedere che spesso sono proprio i membri stessi di tutte queste band a far affondare la nomea del loro gruppo, non supportando affatto la musica, non comprando i dischi, non andando ai concerti e via dicendo. Credo che se un cambiamento effettivo non verrà proprio da chi fa musica, non ne usciremo mai. |
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