Il
chitarrista Iain Ashley si cimenta in una performance che si preannuncia
impegnativa, sin dal titolo. Per uno sforzo artistico così
pretenzioso si necessita di una solida line-up ed il nostro amante
delle sei corde si circonda di validi artisti, fra cui spicca il nome
del cantante Graham Bonnet (Rainbow, Alcatrazz…). Tre sono i
tastieristi che si alternano fra i solchi, Philip Wolfe, Harlan Spector
e Jim Austin, mentre alla batteria troviamo Tony Medeiros.
Il primo brano “Blood Of King” comincia bene il disco
e trapela subito l’amore che il nostro nutre per band come Deep
Purple e Rainbow. Orecchiabile e mai troppo autocelebrativo, come
del resto tutto “The Holy Grail”, trova il suo punto forte
nella voce di David Montgomery. La produzione è buona, i suoni
non sono prepotenti e restano puliti, lasciando una buona impressione
per tutto il proseguo. C’è da spezzare ancora un’altra
lancia a favore di Iain, buona l’idea di puntare su di un buon
songwritig senza mai perdersi in inutili orpelli strumentali. Ma allora
siamo davanti ad un capolavoro? No, i minuti di stanca affiorano di
tanto in tanto, alcuni brani risultano lunghi e fin troppo sfruttati,
insomma qualche smussatura andrebbe fatta. Si ha sempre la sensazione
che da un momento all’altro il brano decolli, ma purtroppo questo
accade raramente. “Empty Placet” è il perfetto
esempio del concetto. Francamente inutile anche la “Toccata
In D Minor”, non tanto per l’esecuzione ma per l’insieme,
un episodio a se stante che non si raccorda a quanto il disco ci racconta.
L’interesse aumenta verso la fine, quando i brani vengono interpretati
dal vecchio leone Graham Bonnet. “Going Down” è
fresco, “Walking The Talk” ha un ritmo trascinante e “The
Holy Grail” è il momento più maschio.
In definitiva Ashley ci propone un lavoro onesto, senza infamia ne
lode, ma se consideriamo che questo genere musicale deve farci scorrere
adrenalina nelle vene, allora direi proprio che non si va oltre la
risicata sufficienza. MS |