Vorrei
liquidare questo live report con un succinto “one man show”,
ma per dovere di cronaca cercherò di essere un po’ più
articolato e di raccontarvi l’esito di una serata che mi ha
lasciato alquanto deluso.
C’era grande attesa per il concerto dell’irlandese Gary
Moore al Rolling Stone di Milano, un chitarrista che ha fatto storia
nel rock. Alla fine degli anni sessanta militò negli Skid Row
(ovviamente non sono quelli più famosi di Sebastian Bach),
poi fece parte dei Colosseum, una delle formazioni più interessanti
e creative del prog. Nel ’72 diede inizio alla carriera solista
con un primo disco all’insegna di un jazz rock abbastanza interessante,
in contemporanea suonò con altri gruppi fra cui meritano di
essere ricordati gli storici Thin Lizzy. La sua carriera solista prese
una svolta decisiva verso la fine degli anni ’80, quando il
nostro puntò decisamente sul blues, una svolta coraggiosa,
anche perché in quel periodo il blues non era certo di moda.
Nella sua carriera ha suonato un po’ di tutto, compreso del
sano hard rock e del passionale heavy metal. Una carriera all’insegna
dell’apertura, ma al tempo stesso anche della coerenza artistica,
doti ripagate da un caloroso amore del pubblico e di buona parte della
critica.
Non mi ha sorpreso quindi vedere che il Rolling Stone per l’occasione
era stracolmo di gente, non solo era sold out con tante persone rimaste
fuori senza biglietto, ma dentro era uno spettacolo vedere un pubblico
numeroso e accalcato davanti ad un palco, cosa che non mi capita tanto
spesso notare di questi tempi, in particolare per un artista un po’
“datato”. Moore è arrivato sul palco molto puntuale
ed ha attaccato con il classico “Pretty Woman”, mettendo
subito in evidenza il suo chitarrismo nervoso e acido, il suo è
un blues molto viscerale e istintivo, dove la chitarra è l’unica
vera star dello show. Il pubblico era in adorazione, come ipnotizzato
da quello che vedeva. Moore è molto bravo ad impostare assoli
costruiti su note singole, tirandole fino all’esasperazione
o ripetendole in continuazione, ma al tempo stesso è anche
molto veloce sulla tastiera ed è capace di piazzare delle scale
vertiginose a velocità molto elevate, tutto intriso di vera
ed indiscutibile passione per il blues. Il suo stile molto personale
è stato ben riconoscibile durante tutto lo spettacolo, dove
si è percorso in lungo e in largo la carriera del nostro, con
una buona attenzione al suo classico album Still Got The Blues, da
cui ha tratto almeno quattro brani, ma quello che mi ha sorpreso e
stupito è stato l’apporto del gruppo, praticamente inesistente.
La band a supporto era composta da un tastierista, un bassista e un
batterista. Il tastierista non si è sentito per tutto il concerto
(dicono per colpa dell’acustica del locale), quindi mi risulta
molto difficile commentare la sua prestazione, ma da quello che vedevo
fare dalle sue mani (ero appostato praticamente sopra di lui) si è
limitato ad un timido accompagnamento. Il bassista era l’unico
oltre a Gary che si sentiva, ma si è limitato anche lui ad
un accompagnamento privo di colore. Infine il più deludente
di tutti è stato il batterista, ero allibito dalla sua scialba
prestazione, praticamente non usava mai la cassa della batteria, ad
esempio non enfatizzava mai i colpi sui crash col colpo di cassa,
che è una delle prassi più elementari per ogni batterista,
durante le chiusure aveva le gambe immobili come dei pezzi di legno,
non lanciava mai gli assoli di chitarra, non faceva nessun up and
down, ma nemmeno nessuno stacco, non parliamo poi di variazioni di
ritmo, in altre parole la sua performance era monocorde, quasi inesistente,
tanto valeva suonare con delle basi (almeno si risparmiava sui costi
del tour), l’effetto avrebbe potuto anche essere migliore.
Qualche amico a fine concerto mi ha obbiettato che questo è
il blues, che è normale così, che in fondo ci stava
anche bene, ma io ho visto troppi concerti blues per accettare questa
teoria, dai Ten Years After del grande Alvin Lee ai Gov’t Mule,
ho visto John Mayall, Leslie West, Robben Ford, i Groundogs e tanti
altri e il gruppo è sempre stato determinante per la riuscita
dello show, per l’appagamento dello spettatore. Purtroppo nel
concerto di Moore il gruppo ha fatto solo da contorno, ma non solo,
il fatto è che era un contorno senza sapore e senza colore,
che non accontentava ne il gusto ne la vista, un contorno sciatto,
insipido al punto da essere irritante. Una sensazione sgradevole che
ha trovato conferma proprio dall’osservazione del pubblico,
che era sì in adorazione del guitar hero, come imbambolato
dal suo indiscutibile virtuosismo, ma che era anche praticamente immobile,
statico, quando invece avrebbe dovuto muoversi come un onda, doveva
farsi trascinare da una musica che è fatta per far sobbalzare
la gente, il blues è un genere dinamico, viscerale, che non
può lasciare immobili, il blues è trasporto e fisicità,
non è niente di cerebrale, altrimenti non è blues!
Il nocciolo del problema è che sono convinto che i musicisti
che accompagnavano Gary non fossero degli sprovveduti e che la scelta
di avere un gruppo “ombra” alle spalle fosse dello stesso
Moore e visto che per adesso non ho la possibilità di chiedergli
il perché di questa scelta sorprendente, preferisco non trarre
delle conclusioni gratuite, ma di certo non posso non biasimare una
decisione artistica che ritengo profondamente incondivisibile. Moore
è bravo, anzi bravissimo, ma per me il blues è tutta
un’altra cosa e di sicuro non va suonato così. Quanto
rimpiango il povero Rory Gallagher! GB
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