Rock Impressions

GARY MOORE live @ Rolling Stone - Milano, 14 Novembre 2008
di Giancarlo Bolther

Vorrei liquidare questo live report con un succinto “one man show”, ma per dovere di cronaca cercherò di essere un po’ più articolato e di raccontarvi l’esito di una serata che mi ha lasciato alquanto deluso.

C’era grande attesa per il concerto dell’irlandese Gary Moore al Rolling Stone di Milano, un chitarrista che ha fatto storia nel rock. Alla fine degli anni sessanta militò negli Skid Row (ovviamente non sono quelli più famosi di Sebastian Bach), poi fece parte dei Colosseum, una delle formazioni più interessanti e creative del prog. Nel ’72 diede inizio alla carriera solista con un primo disco all’insegna di un jazz rock abbastanza interessante, in contemporanea suonò con altri gruppi fra cui meritano di essere ricordati gli storici Thin Lizzy. La sua carriera solista prese una svolta decisiva verso la fine degli anni ’80, quando il nostro puntò decisamente sul blues, una svolta coraggiosa, anche perché in quel periodo il blues non era certo di moda. Nella sua carriera ha suonato un po’ di tutto, compreso del sano hard rock e del passionale heavy metal. Una carriera all’insegna dell’apertura, ma al tempo stesso anche della coerenza artistica, doti ripagate da un caloroso amore del pubblico e di buona parte della critica.

Non mi ha sorpreso quindi vedere che il Rolling Stone per l’occasione era stracolmo di gente, non solo era sold out con tante persone rimaste fuori senza biglietto, ma dentro era uno spettacolo vedere un pubblico numeroso e accalcato davanti ad un palco, cosa che non mi capita tanto spesso notare di questi tempi, in particolare per un artista un po’ “datato”. Moore è arrivato sul palco molto puntuale ed ha attaccato con il classico “Pretty Woman”, mettendo subito in evidenza il suo chitarrismo nervoso e acido, il suo è un blues molto viscerale e istintivo, dove la chitarra è l’unica vera star dello show. Il pubblico era in adorazione, come ipnotizzato da quello che vedeva. Moore è molto bravo ad impostare assoli costruiti su note singole, tirandole fino all’esasperazione o ripetendole in continuazione, ma al tempo stesso è anche molto veloce sulla tastiera ed è capace di piazzare delle scale vertiginose a velocità molto elevate, tutto intriso di vera ed indiscutibile passione per il blues. Il suo stile molto personale è stato ben riconoscibile durante tutto lo spettacolo, dove si è percorso in lungo e in largo la carriera del nostro, con una buona attenzione al suo classico album Still Got The Blues, da cui ha tratto almeno quattro brani, ma quello che mi ha sorpreso e stupito è stato l’apporto del gruppo, praticamente inesistente.

La band a supporto era composta da un tastierista, un bassista e un batterista. Il tastierista non si è sentito per tutto il concerto (dicono per colpa dell’acustica del locale), quindi mi risulta molto difficile commentare la sua prestazione, ma da quello che vedevo fare dalle sue mani (ero appostato praticamente sopra di lui) si è limitato ad un timido accompagnamento. Il bassista era l’unico oltre a Gary che si sentiva, ma si è limitato anche lui ad un accompagnamento privo di colore. Infine il più deludente di tutti è stato il batterista, ero allibito dalla sua scialba prestazione, praticamente non usava mai la cassa della batteria, ad esempio non enfatizzava mai i colpi sui crash col colpo di cassa, che è una delle prassi più elementari per ogni batterista, durante le chiusure aveva le gambe immobili come dei pezzi di legno, non lanciava mai gli assoli di chitarra, non faceva nessun up and down, ma nemmeno nessuno stacco, non parliamo poi di variazioni di ritmo, in altre parole la sua performance era monocorde, quasi inesistente, tanto valeva suonare con delle basi (almeno si risparmiava sui costi del tour), l’effetto avrebbe potuto anche essere migliore.

Qualche amico a fine concerto mi ha obbiettato che questo è il blues, che è normale così, che in fondo ci stava anche bene, ma io ho visto troppi concerti blues per accettare questa teoria, dai Ten Years After del grande Alvin Lee ai Gov’t Mule, ho visto John Mayall, Leslie West, Robben Ford, i Groundogs e tanti altri e il gruppo è sempre stato determinante per la riuscita dello show, per l’appagamento dello spettatore. Purtroppo nel concerto di Moore il gruppo ha fatto solo da contorno, ma non solo, il fatto è che era un contorno senza sapore e senza colore, che non accontentava ne il gusto ne la vista, un contorno sciatto, insipido al punto da essere irritante. Una sensazione sgradevole che ha trovato conferma proprio dall’osservazione del pubblico, che era sì in adorazione del guitar hero, come imbambolato dal suo indiscutibile virtuosismo, ma che era anche praticamente immobile, statico, quando invece avrebbe dovuto muoversi come un onda, doveva farsi trascinare da una musica che è fatta per far sobbalzare la gente, il blues è un genere dinamico, viscerale, che non può lasciare immobili, il blues è trasporto e fisicità, non è niente di cerebrale, altrimenti non è blues!

Il nocciolo del problema è che sono convinto che i musicisti che accompagnavano Gary non fossero degli sprovveduti e che la scelta di avere un gruppo “ombra” alle spalle fosse dello stesso Moore e visto che per adesso non ho la possibilità di chiedergli il perché di questa scelta sorprendente, preferisco non trarre delle conclusioni gratuite, ma di certo non posso non biasimare una decisione artistica che ritengo profondamente incondivisibile. Moore è bravo, anzi bravissimo, ma per me il blues è tutta un’altra cosa e di sicuro non va suonato così. Quanto rimpiango il povero Rory Gallagher! GB

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