I
casertani Psychopathic Romantics hanno da poco realizzato questo secondo
album autoprodotto, non conoscendo il primo non posso fare confronti
e raccontarvi di eventuali progressi, ma questo disco mi ha davvero
colpito. Questi quattro musicisti hanno dato vita ad un sound post
rock veramente ricco e personale e riescono a coniugare le influenze
più disparate, a dire il vero mi sembra quasi strano che un
disco così non abbia trovato una label che lo volesse produrre,
potrebbe essere stata una precisa scelta del gruppo, una scelta di
libertà che si adatta ai tempi attuali, dando la possibilità
alla band di distribuire la loro musica attraverso tutti i canali
che le moderne tecnologie mettono a disposizione, ma sono convinto
che l’appoggio di una vera label potrebbe dare quel tocco di
“ufficialità” che non guasta mai. Anche perché,
ripeto, questo disco merita davvero attenzione.
La creatività di questi musicisti emerge fin dall’artwork
originale, essenziale e penetrante, sul retro i titoli dei brani sono
inseriti in un testo, idea molto carina. Si parte subito con dei toni
semi acustici e molto psichedelici del brano iniziale, che sembra
uscito dal repertorio dei Velvet Underground, caustico ed abrasivo,
pur essendo semi acustico. “Democracy’s Pill” è
molto più malinconica e folle, con un folk rock che verso metà
brano deflagra in un rock durissimo, carico di suggestioni hardcore
punk. “Transparent Smiles” prosegue aggiungendo delle
tinte prog alla Anglagard e Landberk, che mostrano una band capace
e preparata, che riesce a passare attraverso vari generi musicali
senza perdere mai di vista l’obiettivo finale del brano. “Free
Barabbas” è il punto più alto del disco, un brano
teatrale, che parte violentissimo, per poi calmarsi e diventare onirico,
poi ancora assume i connotati di una ballata elettrica, ma cambia
continuamente fra deviazioni psichedeliche e rock d’autore e
un’attitudine drammatica sorprendente, che arriva a coniugare
il folk natalizio delle zampogne con un rock claustrofobico e tribale,
ma non è un brano dissacrante, piuttosto sembra voler denunciare
le incongruenze di un’umanità che dopo duemila anni sarebbe
ancora pronta a crocefiggere nuovamente un novello Cristo, piece davvero
spettacolare. “Silent Venom” assume i toni di una ballata
stralunata, che a questo punto ci sta bene. La prima parte di “F.”
è molto delicata, dal testo poetico, l’unico cantato
in italiano, poi il brano diventa più elettrico. “Mother
Nature’s Latest Madness” mostra il lato più folle
di questi musicisti. Bella anche la strumentale “21”.
Chiude con dolcezza la folkeggiante “I Came Here”, buon
suggello per un disco capace di sorprendere.
Ci sarebbe molto da riflettere sul fatto che un gruppo così
nel nostro paese sia costretto ai margini dell’autoproduzione,
ma sono convinto che questi artisti abbiamo dalla loro la forza necessaria
per portare avanti un progetto che non deve passare inosservato. GB
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