I
Quiet Riot hanno tre meriti, il primo è di aver avuto in formazione
il mitico chitarrista Randy Rhoads e il bassista Rudy Sarzo, che diverranno
famosi alla corte del Madman, poi tutti sappiamo del tragico destino
che ha colpito Randy, morto tragicamente in un incidente aereo; il
secondo è quello di avere un cantante molto dotato come Kevin
DuBrow; terzo e ultimo quello di aver azzeccato una cover degli Slade,
“Cum On Feel the Noise” che ha trainato il disco Metal
Health dell’83 ai vertici di tutte le classifiche mondiali,
ma siccome il gruppo non è mai stato ricco di idee è
iniziato un inesorabile declino e ben presto tutti si sono dimenticati
di loro.
DuBrow ha provato a rimettere in pista il gruppo negli anni ’90
con scarsi risultati e fino ad un nuovo scioglimento, ma on mi sorprende
comunque di ritrovare quel ragazzaccio di Kevin ancora in pista dopo
tanti anni, in fondo anch’io macinai per bene il vinile di Metal
Health sul piatto dello stereo tanti anni fa. Questo nuovo disco dovrebbe
rilanciare il gruppo americano, ma francamente dubito molto che, a
parte qualche nostalgico degli anni ottanta, ci possano essere molti
interessanti in questa riesumazione.
Il disco per la verità apre bene con l’hard rock moderno
di “Free” poi inizia una serie di brani prevedibili e
poco incisivi, che si salvano solo per le doti vocali ancora intatte
del buon Kevin. “Blind Faith” è scritto insieme
a Glenn Hughes e si sente, non è imperdibile, ma resta un buon
pezzo. “South of Heaven”, invece, è davvero mediocre.
“Black Rain” è piena di rabbia, ma poco incisiva.
Trascurabile anche la blueseggiante “Old Habits Die Hard”.
Non male piuttosto la nervosa “Strange Daze”, che presenta
un buon riffing di chitarra all’insegna di un mix di vecchio
e nuovo hard rock ad alto potenziale. Molto standard “In Harm
Way” con un giro che più banale e scontato non si può.
Vagamente southern è “Beggars and Thieves”, ma
anche il titolo stesso del brano non è molto originale. Verso
la fine del cd ecco la blueseggiante “Evil Woman” dove
il nostro sembra influenzato pesantemente dall’amico Glenn Hughes,
ma poi ecco che proprio Mr Voice of Rock fa la sua apparizione e canta
nel brano insieme a Kevin, grande assolo di chitarra e, sempre se
il mio udito non mi inganna (il promo non è accompagnato da
note), Hughes in questo pezzo suona pure il basso e il disco si impenna
vertiginosamente, ma è un po’ tardi per risollevarlo
dalla caduta, peccato. Chiude dignitosamente la bonus “Wired
to the Moon”, ma le perplessità sul disco sono rimaste
tutte.
In fondo Rehab è un disco che può piacere agli amanti
del genere, alcuni momenti sono anche buoni, ma nel complesso è
sotto la media e si salva solo per la classe dei musicisti coinvolti.
GB
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