Per il loro terzo album i Quintessenza, band di Volterra, hanno fatto
un meticoloso lavoro preparatorio, durato circa dieci anni di lavoro
(se non ho capito male), un impegno notevole, se si pensa poi che
il disco è autoprodotto e che oggi il mercato difficilmente
può ripagare un simile sforzo, eppure la band non si è
fatta intimorire dalle evidenti difficoltà ed è andata
dritta per la sua strada fino ad arrivare all’agognata pubblicazione
di questa opera rock dal titolo affascinante.
Nel cd è presente una traccia interattiva che da accesso a
contenuti extra fra cui mi preme segnalare la possibilità di
downlodare un libro che costituisce l’ossatura del concept sottostante
al cd, una lettura affascinante, vagamente esoterica, che permette
un viaggio migliore fra le visioni proposte dalla band.
La partenza è ottima, atmosfere molto teatrali, con l’ospite
Elena Alice Foschi (dei Kirlian Camera) che incanta subito, si respira
il prog del Banco e di un po’ tutta la tradizione italiana dei
settanta, fra recitazioni ricche di citazioni e di umori, poi arriva
la title track e le atmosfere si irrobustiscono fino ad arrivare ad
un metal molto tecnico di ispirazione anni novanta, il mix fra tradizione
e metal alla Dream Theater è davvero impressionante, anche
se alcune soluzioni vocali del singer Diego Ribecchini, per quanto
molto tecniche, non appaiono del tutto integrate con la musica, in
particolare quando si lancia in acuti improvvisi alla King Diamond.
Il senso drammatico viene esaltato dalle parti recitate che fanno
da unione tra i brani, che sono divisi in capitoli, come ne “La
Porta Rossa”, poi arriva il metal serrato e incalzante di “Viscere”
e la band mostra un certo coraggio nell’accostare situazioni
molto diverse tra loro. Ribecchini canta bene e in certi momenti ricorda
perfino Renga, quindi le mie considerazioni non vogliono sminuire
le sue qualità, solo che il cantato in italiano, come avveniva
anche in molti nostri gruppi degli anni ’70, fa molta fatica
ad integrarsi con le musiche. Comunque sia questo è un gran
brano. Ottime tutte le parti strumentali, sulle quali c’è
poco da eccepire. Il lirismo di “Un Volo d’Argento”
è da brividi, questa ballata ci dona la misura di questi artisti.
Le difficoltà espresse maturano in “Nuovi Rami”,
i cui intrecci nervosi e complessi non ripagano l’ascolto attento.
Nemmeno il brano “Quintessenza” fuga i dubbi. Fra luci
ed ombre si arriva alla conclusiva “La Fine del Viaggio”,
che propone in apertura un bel giro metal, ma non bisogna ingannarsi,
in realtà è uno degli episodi più prog del disco.
Nei Giardini di Babilonia è un disco difficile, che richiede
vari ascolti per essere interiorizzato e per poterne apprezzare tutte
le sfumature, perché è molto ricco sia a livello concettuale
che musicale, merito di un gruppo che ha svolto un gran lavoro, però
ci sono ancora degli spigoli da smussare e su questi si dovrà
concentrare l’attenzione della band per il futuro, sono sicuro
che l’obiettivo sia davvero molto vicino. GB
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