Quando
ho comprato questo disco sapevo solo che era catalogato come “hard
rock”, ma non avevo altre notizie su questo titolo, solo mi
aveva incuriosito il nome del gruppo e la copertina dal gusto epico,
poi con sorpresa ho scoperto che era l’opera prima del talentuoso
Mark Mangold, un tastierista che ha avuto un notevole successo negli
anni a venire, tanto da suonare con Cher, Michael Bolton e Aldo Nova,
anche se io l’ho apprezzato in particolare in gruppi di hard
rock melodico come gli American Tears, Touch e Drive She Said.
Questo disco risale alla fine degli anni sessanta e Mark era ancora
un ragazzo, come probabilmente lo erano i suoi compagni d’avventura,
ma il loro rock sinfonico era già maturo e pronto per la rivoluzione
musicale che stava crescendo, invece il destino ha voluto che questa
restasse l’unica testimonianza su disco dei Valhalla, gettando
così il gruppo in un ingiusto oblio che solo gli appassionati
più curiosi riescono a penetrare.
Il sound di questa band è un mix di Deep Purple e Procol Harum,
con le tastiere in grande evidenza, ma dove anche la chitarra acida
di Don Krantz si fa sentire. Non è un “capolavoro”,
non è il disco che “tutti dovrebbero avere nella loro
discografia” o il mega classico dimenticato, ma è un
disco onesto, suonato con passione e con delle belle canzoni.
L’iniziale “Hard Times” apre con un classico riff
di organo hammond molto duro, psichedelia e hard rock si fondono e
ne esce un sound carico di nostalgia, la chitarra corre in libertà,
mentre Mangold si mette subito in risalto col suo tastierismo carico
di passione. “Conceit” risente ancora molto del pop dei
sixties con le sue melodie ariose, ma è ancora una bella canzone,
molto meno hard rock della prima, salvo poi irrobustirsi in un crescendo
finale. Le atmosfere dei Procol Harum arrivano ancora più evidenti
nella romantica “Ladies in Waiting”, molto bello l’assolo
di organo. L’hard rock torna con enfasi nell’acida “I’m
Not Askin”, che sfiora il progressive con le sue fughe strumentali,
un brano che dal vivo poteva essere dilatato in lunghe jam sessions,
certi giri ricordano anche i Doors più duri, questa volta è
la chitarra ad essere in primo piano, anche se le tastiere formano
un tappeto perfetto. “Deacon” a sorpresa si rifà
ad una tradizione musicale legata al cinema e ricorda sonorità
alla Morricone. “Heads Are Free” ci riporta in atmosfere
più rock, ancora grande l’influenza della psichedelia
garage di gruppi come Music Machine e Shadows of Knight, c’è
un intermezzo con un duello chitarra, tastiere e batteria, molto gustoso.
Arriva anche il momento del blues con l’incendiaria “Roof
Top Man”, ma il gruppo si lancia in improvvisazioni molto ispirate.
“UBT” è un altro lento dolce e carezzevole, con
un basso che emerge sopra un tappeto onirico di tastiere che ancora
una volta si trasforma in un robusto crescendo. “Conversation”
si discosta un po’ dal resto del repertorio con un incedere
funkeggiante e ritmato. Per finire troviamo l’apoteosi sinfonica
di “Overseas Symphony”, siamo davvero ai limiti del prog
ed è un brano che dimostra quanto fossero buone le potenzialità
di questa band.
Peccato per i Valhalla, ma per fortuna Mangold non si è fermato
ed ha continuato a dare vita a progetti musicali importanti e noi
ne siamo riconoscenti. GB
Sito Web di
Mark Mangold
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