Tra i cultori della grande musica degli anni ’60 e ’70
compaiono moltissime persone nelle quali l’estatica contemplazione
(o meglio: ascolto) delle meraviglie del passato è associata
ad un disfattismo dai toni virulenti allorquando i protagonisti di
tali avventure tanto apprezzate decidono di lasciare un marchio nella
produzione musicale attuale. Ecco allora che, preventivamente, tutte
le operazioni di reunion vengono distrutte impietosamente. Io ho sempre
visto la cosa da un’ottica differente e, pur conscio che niente
può ripetersi e che certe cose sono effettivamente impareggiabili,
per esempio mi arrischio a dire che sarei stato ben lieto di una reunion
beatlesiana, anche senza Lennon. Sarebbe stata la stessa cosa? Certo
che no! Sarebbe stato meglio di qualsiasi altra cosa presente sul
mercato? … Beh, certo che si!
Il 2012 anno che segna il cinquantennale dei succitati Beatles, come
dei Rolling Stones e i Beach Boys segna la reunion, con tour mondiale
e cd nuovo di zecca, per questi ultimi.
Anche per i “ragazzi di spiaggia” vale ovviamente il discorso
fatto prima: lutti, vecchiaia non possono consentire una replica di
“Pet Sounds”, ma diciamo subito, a scanso di equivoci,
che il nuovo cd “That’s Why God Made the Radio”
è un lavoro sorprendente. Di qualità e intensità
cristallina, a riprova di come certe interazioni artistiche stimolino,
anche a distanza di tanti anni una “chimica” particolare
e vincente.
Il cd in questione è una brillante sintesi di molte delle epoche
attraversate da Brian Wilson e i suoi compagni: i temi e certe atmosfere
di “Beach Boys Today” (1964), le composizioni più
adulte di “Sunflower” e “Surf’s Up”
(1970/1971), flash dai tardi anni ’70 e un cospicuo retaggio
dal Wilson solista (non casuale, diremmo, la presenza di Joe Thomas
come produttore, col quale il compositore americano dette alle stampe
il fantastico “Imagination” del 1998).
“That’s Why God Made the Radio” è la riprova
del fatto che ciò che è più inattuale continua
a suonarci vivo ed entusiasmante in quanto eterno. E’ per questo
che ad esempio i testi dei Beach Boys DEVONO suonare ingenui, addirittura
stupidi, in quanto dimostrazione di ciò che il poeta romantico
inglese Wordsworth aveva una volta scritto, ossia che “The child
is the father of the man”.
Entrando nella disamina dell’album, il lavoro si apre con una
breve intro dai sapori fortemente elegiaci intitolata “Think
About the Days”, quasi interamente a cappella, un pretesto molto
emozionante per farci capire lo stato di salute delle voci di questi
ragazzi un po’ (tanto) invecchiati… Giusto il tempo di
“acclimatarsi” e ci si gioca subito il primo singolo,
ossia il brano che dà il titolo all’album, il perfetto
esempio di come la musica, al di là dei suoi intenti più
o meno spirituali, possa elevare le anime e far provare reale gioia.
Buonissima è anche “Isn’t it Time”, una rievocazione
dei bei tempi andati affidata in modo molto minimale a ukulele, voci
e battimani, quasi un outtake dal “Smiley Smile” del ’67!
La seguente “Spring Vacation” è il brano “necessariamente
stupido”… Razionalmente lo condannerete, ma poi provate
a restare insensibili al ritornello o alla generale energia propagata
dalla canzone in questione. “The Private Life of Bill and Sue”,
dal sapore latino, vede le armonie vocali della band al loro meglio.
A questo punto l’album segna un punto di stanca creativa (altrimenti
ci troveremmo di fronte ad un capolavoro assoluto) e se “Shelter”
e “Beaches in Mind”, pur piacevolissime, sembrano giocare
in maniera troppo maliziosa con il “già sentito”,
l’unico contributo di Mike Love da compositore , “Daybreak
Over the Ocean” è assolutamente noioso e inutile.
A risollevare le cose arriva “Strange World” brano compositivamente
affascinante e con armonie particolarmente azzeccate, una introduzione
al clamoroso trittico di brani a chiusura del lavoro, in cui il tono
gioioso si muta in malinconico e riflessivo. Questa parte finale è
quella che farà la gioia degli intenditori più attenti,
in quanto “From There to Back Again”, “Pacific Coast
Highway” e “Summer’s Gone” rappresentano al
contempo apici dell’arte wilsoniana, manuali di arrangiamento
creativo (davvero ottimi gli archi di Mertens) e inni alla sorpresa
in musica. Simile arte in un disco dei Beach Boys non si ascoltava
da inizio anni ’70!
In conclusione ci troviamo di fronte ad uno dei pochissimi album “da
avere” del 2012. Un lavoro eccellente che potrebbe essere il
preludio di ulteriori sorprese. C’è chi preferirà
lasciarsi tediare dai cloni moderni di questa formazione americana,
siamo sicuri, ma noi continuiamo a preferire gli originali! AC
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