| Sono ancora ammutolito 
            dalla notizia della morte di Bowie, ma ho voluto ugualmente confrontarmi 
            con questo suo testamento musicale. Tante sono le emozioni che ho 
            provato e ancora di più sono quelle che suscita l’ascolto 
            di questo disco, unico e assoluto. Sull’importanza artistica 
            e musicale del Duca Bianco si sono spesi fiumi di parole e non credo 
            di poter aggiungere molto. Dalla fine degli anni ’60 è 
            stato modello per un numero infinito di artisti. Mi sono chiesto perché, 
            credo che ci sia una parola che riassume tutto il suo percorso: libertà. 
            Bowie, cantautore, musicista, attore e pittore, è stato un 
            modello perché ha incarnato meglio di chiunque altro la libertà 
            di esprimersi, incurante di mode e stili.
 Black Star è uscito il giorno del suo sessantanovesimo compleanno, 
            due giorni prima della sua dipartita. Sembrerebbe quasi una beffa 
            del destino, ma lui sentiva che questo sarebbe stato il suo ultimo 
            album, il suo ultimo atto d’amore per i suoi fans. E ha infuso 
            in questo disco tutta la sua forza espressiva.
 
 Black Star è un disco oscuro, la grafica è severa, con 
            i testi scritti in nero lucido su nero opaco, rendendoli quasi illeggibili. 
            Si parte col brano eponimo, i suoni sono post moderni, sperimentali, 
            molto spesso fortemente dark, con ritmiche complesse, tutto è 
            tenuto insieme da melodie suadenti, oniriche, ma è quasi una 
            suite che cambia forma e apre a passaggi ai limiti dell’art 
            rock. Non è musica classificabile, sembra quasi che Bowie abbia 
            voluto racchiudere in questo brano un caleidoscopio di idee, restando 
            in qualche modo sempre fedele al suo stile peculiare. Un brano che 
            più lo riascolto e più lo trovo carico di vibrazioni 
            potenti. “’Tis a Pity She Was a Whore” è 
            un brano duro, scandito da una batteria incalzante, mentre il cantato 
            ricorda vagamente certe melodie anni cinquanta e i fiati si librano 
            in un free jazz vagamente folle, una serie di contrasti abbastanza 
            insoliti, ma che funzionano meravigliosamente bene, pop d’avanguardia. 
            “Lazarus” è semplicemente perfetta, il suo incedere 
            marziale, la malinconia di fondo, per tutti questo è il canto 
            funebre di chi chiede di essere guardato nel suo dramma, ma che ora 
            è in cielo. Non riesco a non commuovermi ascoltandola, un brano 
            ancora una volta profondamente dark. Bellissimo anche il video, forse 
            un po’ burtoniano, ma molto toccante. Anche “Sue (Or In 
            a Season of Crime)” è molto dura, con un ritmo che non 
            lascia respiro, un altro canto di dolore apocalittico, dove la sperimentazione 
            e le improvvisazioni lanciano richiami allarmanti. “Girl Loves 
            Me” continua a proporre questo mix di pop e sperimentazione, 
            mescolando suoni acidi a bei motivi. “Dollar Days” è 
            molto british, ma in questo disco niente è quello che sembra 
            e presto la voglia di stupire l’ascoltatore emerge in sezioni 
            ariose, che fanno decollare il brano. Senza soluzione di continuità 
            parte “I Can’t Give Everything Away”, che suggella 
            il disco con un’altra bella aria in linea col repertorio del 
            Duca, senza comunque disdegnare di elargire ancora vibrazioni aliene, 
            polvere di una stella nera.
 
 Con il suo ultimo disco, David Bowie ha trasformato la sua morte in 
            un’opera d’arte. Non mi sento di aggiungere altro. Grazie 
            David! GB
 
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