Una stagione brucia in fretta, lasciando dietro di sé una scia
di ricordi che, come i detriti di un'esplosione siderale, permangono
sospesi nel vuoto assoluto dell'immensità cosmiche. Il Carillon
del Dolore iscrisse il suo nome su più d’una pagina della
ondivaga storia della wave italiana, e chi ebbe la fortuna di leggerle
appena vergate ne serba oggidì una rimembranza epica, come
di qualcosa vissuta in un passato glorioso, forse perchè s'era
semplicemente più giuovini. Un nome che segna come altri una
epopea, e che per la sua allora chimerica inarrivabilità, almeno
per me, troppo picciolo per potermi spostare oltre gli angusti confini
della mia regione al massimo, assume i contorni sfocati della leggenda.
Ma viviamo in una epoca di ricicciante moda di reunion, come scrive
Fabio Fiorucci nelle esaustive note che introducono l'opera, ed è
giusto che pure il Carillon torni a diffondere la sua arcana melodia,
se non altro perchè ai nuovi adepti del verbo dark va concessa
l'occasione di accedere alle obscure stanze ove si celano i cartigli
ingialliti di una certa Storia, al riparo dallo sguardo ebete di colui
che non è un adepto del Verbo, e che quindi non potrebbe comprendere.
Non sorridiamo dinanzi all'ingenua strafottenza di pezzi che possiedono
una loro ragione d'essere, in quanto espressione di una urgenza espressiva
genuina ed incontrollata, d'altronde se "Capitolo IV" poteva
lanciare i nostri (Petali del Cariglione) oltre le barricate della
notorietà (ed ancora mi chiedo perchè ciò non
accadde), sicuramente "Fiori malsani" e "Ritratti dal
vero" racchiudono nei loro nastri una voglia di stupire e di
stupirsi che li rende immediatamente attraenti, pur nella loro catacombale
claustrofobia, accentuata di una registrazione che oggi definiremmo
con spocchia tutta contemporanea vintage. Magari a qualcheduno un
moto di invidia insorgerà, sopra tutto se alla ricerca di quegli
effetti che la plastificazione non potrà mai più riprodurre;
altri tempi, altri mondi, si direbbe, ed il secondo dischetto (nel
primo trovano spazio le canzoni dei due demo citati, oltre ad una
nuova versione di "RHS", denominata "Tribal Cabaret
mix", per l'occasione riverniciata a nuovo) ci fa apprezzare
i nostri alle prese con situazioni live catturate al mitico Piper
Club, al Teatro Espero nel 1983 (qui sì che si respira una
carica di sordido nichilismo punk, puro e duro, d'una asciuttezza
rachitica, ma d'una forza forsennata, rigurgito di suburbia ammorbata,
colle nari appestate dal lezzo delle lamiere contorte dal calore),
al Teatro Massenzio ed allo X Club, per una traccia temporale che
va dallo ottantatre come citato, al 1986, oltre a tre pezzi proposti
nel 2007 al Nuovo Teatro Colosseo, in una data costellata di inconvenienti
e disagi (sempre parole del booklet), ma che significò una
nuova ripartenza/rinascenza, se è vero che il Carillon non
s'è fermato (ed alla congregazione si sono uniti Max Di Loreto,
Max Zarucchi 1334 e Luisa Mann). “Elegia per un’amica,
“Sciami di mosche bianche” e le altre sono un esempio
di quanto l’italica scena poteva esprimere, al di là
di un suono giuocoforza compresso ed ovattato, funereo incedere di
piangenti anime dannate.
Lasciate perdere la qualità, ascoltate ed osservate le fotografie,
è tutto vero, tutto documentato, con la precisione d’un
archivista innamorato dei proprio polverosi tomi coi quali vive in
una sorta di mistica simbiosi. Ottimo lavoro per In The Night Time
e per Erba della Strega, e soprattutto gloria a coloro che si sono
assunti l'onere di trarre dalla cenere questi nastri che non attendevano
altro, se non d'esplodere tutta la loro ancor vitale potenza eversiva.
Sì, ascoltate eppoi lasciate parlare il silenzio. Accarezzate
i petali raggrinziti di questa rosa rossa, una goccia del vostro sangue
la farà rifiorire, la amerete come inscindibile parte di voi.
(N.B.: centossessanta minuti di musica…). AM
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