Gli Chthonic sono la dimostrazione di quanto una corrente musicale
(in assoluto tra le più criptiche all’ascolto e antisociale
nelle tematiche) sia forte di uno zoccolo duro di adepti sparsi per
tutto il globo: il black metal. Quando saltò fuori quello “mesopotamico”
dei mitici Melechesh, mi scappò una risata. Valutazione affrettata.
Ascoltandoli accostare il loro “buzuq” (strumento a corda
arabo) sulle partiture ferali del debutto discografico “Djinn”,
c’era solo da levarsi il cappello ed ammettere che il metal
tutto si nutre, prospera e rimpolpa le proprie trame di contaminazioni,
musicali e non. Ma un po’ per superficialità, un po’
per attitudine a valutare tutto il “nuovo” come eccezione,
ignorai che per saggiare il futuro corso del black metal era necessario
volgere lo sguardo anche fino in estremo Oriente. A Taiwan, per la
precisione. La notizia è anche piuttosto vecchia, perché
in patria questi Chthonic hanno vinto il quattordicesimo Golden Music
Award come miglior rock band, partecipando pure all’Ozzfest.
Qui in Italia sono abbastanza sconosciuti ed a distanza di quasi dieci
anni dal loro debutto discografico, hanno dato alle stampe questa
raccolta.
Setacciando informazioni (il sito ufficiale è consultabile
sia in inglese che in geroglifico cinese!), si scopre di avere a che
fare con la creatura artistica di Freddy Lim, cantante/urlatore politicamente
impegnato nella battaglia per l’indipendenza del suo Paese.
A giudicare dai pezzi inseriti in “Pandemonium”, la proposta
musicale è assimilabile a quella dei primi Cradle Of Filth,
in special modo per l’utilizzo costante di archi e tastiere,
per la voce femminile che di tanto in tanto accompagna lo screaming
di Freddy, che pecca appunto per il fatto d’essere un plagio
legale del timbro di Dani Filth. Il disco ha inizio con una intro
negli stilemi del black-metal sinfonico, e scorrendo fra i primi brani
selezionati ci si imbatte in un riffing non proprio originalissimo,
fatto di chitarre zanzarose, archi e gridolini da rampollo del maligno.
Azzeccata la scelta dell’intro in minore arpeggiato ed il seguente
esplodere del pezzo accompagnato dalle female vocals di “Grab
Your Soul To Hell”, che già riporta i nostri su di uno
standard un po’ meno stereotipato. Anche grazie alle aperture
melodiche accompagnate con l’ “erhu”, che è
una sorta di violino cinese utilizzato per contaminare e personalizzare
il proprio repertorio, si sente il lato più interessante ed
innovativo dei Chthonic (il moniker si dovrebbe pronunciare senza
il “chi greco” iniziale). La lunga suite black “Decomposition
Of The Mother Isle” si alterna in un lungo incedere cadenzato
e melodico, che cresce in una serie di sfuriate a tremila all’ora,
fino all’outro del pezzo dove ricompaiono atmosfere eteree.
Di maggiore impatto i brani tratti dall’ultimo full length “Seediq
Bale”. “Indigenous Laceration” è costruita
su riffoni monolitici e ritornelli al fulmicotone, ed anche su“Bloody
Gaya Fullfilled” in cui il minutaggio più contenuto e
la ferocia del riffing (ben addomesticata dalle female vocals) segnano
il nuovo percorso stilistico della band (ma sono sempre gli inserti
di tastiera a dare il quid al pezzo).
Pur non essendo un sostenitore della “discografia fatta per
compilation”, bisogna riconoscere che “Pandemonium”
è un onesto compendio di metallo nero sinfonico alla Cradle
(forse anche troppo, in alcuni momenti sarebbe molto più interessante
sentirli fare meno il verso ai loro maestri). Inutile precisare che
con notevole difficoltà questa rassegna potrà accattivarsi
le simpatie dei fan della corrente Scandinava più oltranzista.
Proprio in ragione di ciò, la sintesi perfetta del loro sound
non può considerarsi ancora compiuta. Inoltre vorrei spendere
due parole sul packaging del cd, veramente bello e curato nei minimi
dettagli, la custodia è concepita come un cofanetto e all'interno
possiamo trovare varie curiosità. Attendiamoci il definitivo
ed auspicabile salto commerciale (come accadde ai loro colleghi Dimmu
Borgir) verso un repertorio ancor più autentico ed accattivante.
Da tenere d’occhio. FR
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