I
Fog sono una cover band ovvero, come le chiamano comunemente, una
band tributo e c’è un dibattito acceso sui gruppi come
questo. Il problema è che ultimamente quando c’è
un concerto di un gruppo tributo si radunano più spettatori
che non ai concerti di tanti gruppi nuovi, spesso anche di grande
talento, che si sforzano di fare musica loro. Nessuno discute sul
valore dei nuovi gruppi, ma questo fenomeno deve interrogarci.
Oggi quasi tutte le band più importanti hanno un gruppo tributo
“ufficiale” e spesso ce ne sono anche di non ufficiali
e la cosa è così diffusa che qualche giorno fa ho visto
perfino un servizio in uno dei maggiori telegiornali nazionali per
parlare di un gruppo di cloni dei Genesis, credo fossero i Music Box.
Ma perché i gruppi tributo riscuotono tanto successo? Senza
voler fare un’analisi troppo dettagliata del problema, penso
che certa musica rock sia diventata un po’ come la musica classica,
dove molti artisti ripetono brani di altri compositori e questi sono
più seguiti dei compositori contemporanei. Infatti ci sono
molti compositori moderni di musica classica, ma sono conosciuti quasi
esclusivamente dagli esperti del settore e quasi nessuno dal grande
pubblico. I grandi network trasmettono regolarmente concerti di musicisti
morti da centinaia di anni, ignorando quasi del tutto i giovani compositori.
Questa cosa potrebbe far pensare che il rock sia arrivato ad una svolta,
ma non credo che per adesso dobbiamo preoccuparci, dobbiamo invece
accettare il fatto, e questo come appassionati dovrebbe anche farci
piacere, che il rock si sia conquistato un posto nella musica di valore.
Ecco perché c’è gente che apprezza le band tributo
e perché ci sono musicisti che si dedicano anima e cuore alla
musica composta da altri come è il caso di questi Fog.
Il gruppo è composto da Fausto Carcione (voce, basso e chitarra),
Oscar Abelli (batteria) e Gianluca Tagliavini (tastiere). Il disco
è prodotto da Dino Ceglie e da Pino Lettieri, mentre la band
è parte della scuderia di Franz Di Cioccio e Iaia De Capitani.
Da notare che il gruppo suona regolarmente con lo stesso Palmer (ovviamente
senza Oscar). Inutile sottolineare che sia la strumentazione che il
missaggio che la scelta dei suoni sono il più possibili fedeli
agli originali, tanto che si fatica a capire dov’è il
limite fra i vecchi leoni e le giovani leve.
La scaletta è di quelle che neanche gli ELP avrebbero il coraggio
di mettere in un'unica raccolta, ovvero la crema della loro produzione
con titoli come “The Barbarian”, “Knife Edge”,
“Jerusalem”, “Tank”, “Tarkus”
(anche in versione bonus live), “Take a Pebble”, “Karn
Evil9 (1st, 2pt)”, Bitches Crystal”, “Trilogy”,
“Hoedown” e “Lucky Man” come prima bonus dal
vivo. Questi ragazzi suonano in modo sorprendentemente impeccabile,
quasi maniacale ed è una goduria ascoltare l’hammond
di Tagliavini e i giochi ritmici di Carcione e Abelli. Certo il gruppo
ha scelto di riprodurre i brani con la massima fedeltà e questo
è il limite maggiore del presente lavoro, ma ci troviamo per
le mani un disco nato dalla passione, estrema fin che si vuole, ma
genuina.
Le note degli ELP sono immortali e questo disco può essere
un divertente diversivo per chi conosce il gruppo a menadito e un’ottima
presentazione per tutti quei giovani che vogliono iniziare ad accostarsi
alle magie del gruppo più pomposo della storia del rock partendo
dai loro brani migliori. GB
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