Stiamo vivendo un epoca di passaggio molto delicata della musica,
al cui confronto il passaggio dal supporto vinilico a quello digitale
è stato uno scherzo, oggi si parla del passaggio dal supporto
fisico a quello software, basta dischi e cd solo download, non a caso
sta tornando la moda del “singolo” e sono sempre più
gli artisti che non sono più interessati alla produzione di
un intero album, una vera regressione agli anni ’50 e ’60.
In tutto questo marasma c’è però un segnale che
trovo incoraggiante, il fatto che sempre con maggiore frequenza mi
arriva da recensire musica che non viene dai soliti paesi anglosassoni.
Poi se vogliamo dirla tutta, credo che ci sarà sempre gente
che vorrà avere una collezione di dischi, come accaduto per
i libri e per altri oggetti che non sono mai spariti del tutto.
Gibonni, il suo vero nome è Zlatan Stipisic, è un rocker
croato molto famoso in patria, la sua carriera è partita a
metà anni ’80 con la band metal Osmi Putnik, attorno
al 1990 ha avviato la carriera solista ed ha attraversato il difficile
periodo della guerra, oggi è uno degli artisti più amati
del suo paese, dove ha dominato le classifiche ed ha riempito gli
stadi proponendo un pop rock con testi sempre vicini alle problematiche
giovanili.
Questo suo nuovo album, che arriva alla soglia dei trent’anni
di carriera, una carriera ricca di soddisfazioni, ma questo disco
segna una nuova sfida per Zlatan, che ha deciso di valicare i confini
nazionali. Tanto per cominciare alla produzione troviamo il pluripremiato
Andy Wright (che ha lavorato con Simply Red, Eurithmics, Simple Minds
e anche col nostro compianto Pavarotti) e il cantato è in inglese.
Il disco inizia con un rock sofferto di “Hey Crow”, una
power ballad dal gusto blues, la voce vagamente alla Springsteen di
Gibonni appare subito giusta per il genere, il testo è molto
profondo e parla delle miserie legate alla guerra con un linguaggio
inedito e senza falsi idealismi. “Hide the Mirror” è
una ballata intimista con un testo ancora profondo sulla scelta di
impegnarsi o meno. “Broken Finger” è un’altra
bella ballad che mette voglia di cantare, il refrain è accattivante
ed è chiaro che tutto il disco si muoverà attorno a
queste coordinate abbastanza morbide nei suoni, un po’ meno
nei testi che sono sempre abbastanza schietti. “My Cloud”
ha un testo toccante, la base è un rock molto classico, non
ci sono novità o colpi di scena, solo musica sincera ed onesta.
“20th Century Man” è il primo brano veramente rock,
un r‘n’b moderno, che finalmente stacca un po’ e
mette voglia di muoversi. Torna il tema della guerra in “Kids
in Uniform”, ancora le parole graffiano più della musica,
la dote che ha permesso al nostro di arrivare al cuore della gente
con grande facilità, musica non troppo ostica per traghettare
temi importanti, una scelta spesso più efficace di altre comunque
importanti. “My Brother Cain” è un canto di dolore,
ancora una volta il testo è toccante, la musica parte lenta
e pian piano cresce in intensità, bel pezzo. “She Said”
parla del rapporto con un partner, non è la solita canzone
d’amore, parla delle incomprensioni, molto cantautorale. “Nothing
Changes” è l’ultima ballatona, prima del r‘n’b
finale di “Ain’t Bad Enough For R’n’R”.
Come avrete capito le parole di Gibonni mi hanno colpito più
della sua musica, che comunque è schietta ed autentica, un
rock abbastanza morbido e ben suonato con tematiche toccanti, una
testimonianza artistica da non sottovalutare. GB
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