Rock Impressions

Radiohead - A Moon Shaped Pool RADIOHEAD - A Moon Shaped Pool
XL Recordings
Distribuzione italiana: si
Genere: Rock Alternativo
Support: CD - 2016


Rieccoli, i Radiohead. A cinque anni dall’ultimo controverso lavoro, The King of Limbs, ricompaiono sulle scene più o meno all’improvviso con un album, il nono registrato in studio, che mostra inaspettati richiami a sonorità di gusto passato, intimiste. Chissà quanti se lo sarebbero aspettato, dopo la deriva elettronica degli ultimi tempi. Certo mica facile, con un mercato truce e famelico come il nostro, essere dei capofila da trent’anni. Perché una cosa è sicura: i Radiohead non sono soltanto un gruppo che fa alternative. Loro l’alternative lo incarnano. E le aspettative per chi incarna l’anima di un genere musicale possono stritolare, tanto sono pesanti. Li avevano dati per spenti, neanche fossero un capitolo in via di chiusura, e ci poteva anche stare. Naturale che a un certo punto vengano fuori le rughe, succede a tutti, qua, nessuno si salva. La vivacità è prerogativa dell’età giovane e non sempre si riesce a non lasciarsela alle spalle. Ma arrivare alla soglia dei cinquanta significa anche fermarsi per fare i primi conti. E guardarsi dentro, finalmente. Devono aver avuto un bel peso le vicende personali di Thom, d’altra parte come evitarlo. Lui, che è il cuore del gruppo, ora ha ferite da leccarsi. Per quanto amichevole, nessuna separazione passa senza fare un po’ male. Sicché esce questo disco pacato, venato di malinconia, che per molti versi ricorda le atmosfere eteree e tese di Ok Computer, ma anche quelle raffinatissime di In Rainbows, con la nostalgia a legare il tutto. Riecheggiano tra i solchi partiture per archi e cori, alle quali hanno partecipato i maestri della London Contemporary Orchestra and Choir, ma qui c’è lo zampino dell’eclettico Jonny, penna ispirata di molte colonne sonore di successo. Naturalmente è suo il piano che dà l’impronta classica a tutto il disco. Nota non da poco, la voce di Thom sembra aver ritrovato la toccante limpidezza dei bei tempi. Che bel sentire.

Delle undici tracce alcune erano già state presentate dal vivo in diverse occasioni anche se non ne esistevano registrazioni in studio. Apre il disco il primo singolo, Burn The Witch, brano che è di protesta in ogni sua parte, a cominciare dall’arrangiamento ostinato, incalzante, dove alla sezione ritmica contribuiscono anche gli archi, suonati però con la tecnica del legno battuto, ossia colpendo le corde con la bacchetta anziché con i crini. Più lenta e riflessiva è Daydreaming, il secondo estratto dall’album. Brano ambient, una ballata dolce, eterea, di impianto orchestrale ed elettronico assieme. Qui forse più che altrove il dolore di Thom si fa palese. Infatti sulle trame tristi degli archi e dell’onnipresente piano la voce scivola come un lamento sconsolato. Segue Decks Dark, metafora dell’oscurità decadente dal mood onirico, sofisticato, che traduce e fa suoi certi richiami al trip hop. Belle le ritmiche, ammaliante e maestoso il basso di Colin, viene fuori un groove da paura, di quelli che ti entrano in testa e non escono più. Il quarto brano, Desert Island Disk, è un distillato di accenti folk, con chitarre acustiche che fanno il nido alla voce di Yorke, qui più soffice e incantata che mai. Lo sfondo è percorso da alcuni ceselli psichedelici di floydiana memoria, dati con serena maestria, è proprio vero che la classe non è acqua, infatti te ne accorgi solo dopo aver ascoltato la traccia diverse volte. Il bello di certa musica, e i Radiohead in questo sono dei veri assi, è tutta la musica che ci è nascosta dentro. Bisogna saper scavare profondo. Che piacere per le orecchie. A seguire Ful Stop, un galoppo krautrock che parte spalancandosi subito in crescendo, è una roba febbrile, affascinante, c’è da trattenere il fiato. Batteria, basso, una buona dose di elettronica. E accanimento quanto basta. Poi Glass Eyes, questa danza lunare desolata presa in prestito alla concertistica.

Toccanti gli archi. Una delicatezza la voce di Thom. La settima traccia è Identikit, tra i pezzi più riusciti del disco. Già conosciuto nella rocciosa e possente versione dal vivo, il brano esce dai solchi raffinato, meno marziale, ma l’energia c’è ancora tutta. Ha ritmiche incalzanti e le sovrapposizioni di voci, per giunta in falsetto, sono singolari. The Numbers è uno dei brani che sto amando di più, e non parlo solo di questi undici. Ha un incedere possente, sontuoso. Gli echi settantiani, specie all’inizio, sono forti, e settantiano è pure il groove di basso, davvero micidiale, a mezza strada tra il funky e il progressive. Fanno capolino tra le righe i grandi di tutti i tempi, qua e là mi vengono in mente certi Who, certi ELP, e sono citazioni colte, gemme che impreziosiscono con gusto tutto personale un pezzo già di per sé notevole. È una vertigine a salire. Molto bello. Present Tens segue il filone ecologista del precedente. Sorprende il ritmo latino, una bossa nova, che viene qui riproposto con arrangiamento classico, commistione curiosa ma sembra funzionare. Segue la psichedelica Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief, altro capitolo azzeccato dalla struttura complessa, che in finale regala una soluzione da concerto grosso con tutti i legni schierati, ognuno a dire la sua. Chiude il disco True Love Waits, portata sul palco tante di quelle volte negli ultimi vent’anni ma registrata solo ora, vai a capire perché. Poetica la versione per soli piano e voce. Praticamente non c’è altro.

Resta da chiedersi perché rispolverare vecchi spartiti rimasti accantonati per anni piuttosto che scrivere cose nuove. Qualcuno direbbe che scarseggiano le idee, e può anche essere vero, non sto a sindacare. Ma forse invece i Radiohead, grandi come sono, possono ormai permettersi di fare quello che vogliono senza dover rendere conto a nessuno. E comunque le chiacchiere stanno a zero. A Moon Shaped Pool è un gran bel disco e i Radiohead, anche se non più ragazzini, si confermano una delle realtà più multiformi e dotate nel panorama musicale contemporaneo. Bentornati a casa. LM

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