Rieccoli, i Radiohead. A cinque anni dall’ultimo controverso
lavoro, The King of Limbs, ricompaiono sulle scene più o meno
all’improvviso con un album, il nono registrato in studio, che
mostra inaspettati richiami a sonorità di gusto passato, intimiste.
Chissà quanti se lo sarebbero aspettato, dopo la deriva elettronica
degli ultimi tempi. Certo mica facile, con un mercato truce e famelico
come il nostro, essere dei capofila da trent’anni. Perché
una cosa è sicura: i Radiohead non sono soltanto un gruppo
che fa alternative. Loro l’alternative lo incarnano. E le aspettative
per chi incarna l’anima di un genere musicale possono stritolare,
tanto sono pesanti. Li avevano dati per spenti, neanche fossero un
capitolo in via di chiusura, e ci poteva anche stare. Naturale che
a un certo punto vengano fuori le rughe, succede a tutti, qua, nessuno
si salva. La vivacità è prerogativa dell’età
giovane e non sempre si riesce a non lasciarsela alle spalle. Ma arrivare
alla soglia dei cinquanta significa anche fermarsi per fare i primi
conti. E guardarsi dentro, finalmente. Devono aver avuto un bel peso
le vicende personali di Thom, d’altra parte come evitarlo. Lui,
che è il cuore del gruppo, ora ha ferite da leccarsi. Per quanto
amichevole, nessuna separazione passa senza fare un po’ male.
Sicché esce questo disco pacato, venato di malinconia, che
per molti versi ricorda le atmosfere eteree e tese di Ok Computer,
ma anche quelle raffinatissime di In Rainbows, con la nostalgia a
legare il tutto. Riecheggiano tra i solchi partiture per archi e cori,
alle quali hanno partecipato i maestri della London Contemporary Orchestra
and Choir, ma qui c’è lo zampino dell’eclettico
Jonny, penna ispirata di molte colonne sonore di successo. Naturalmente
è suo il piano che dà l’impronta classica a tutto
il disco. Nota non da poco, la voce di Thom sembra aver ritrovato
la toccante limpidezza dei bei tempi. Che bel sentire.
Delle undici tracce alcune erano già state presentate dal vivo
in diverse occasioni anche se non ne esistevano registrazioni in studio.
Apre il disco il primo singolo, Burn The Witch, brano che è
di protesta in ogni sua parte, a cominciare dall’arrangiamento
ostinato, incalzante, dove alla sezione ritmica contribuiscono anche
gli archi, suonati però con la tecnica del legno battuto, ossia
colpendo le corde con la bacchetta anziché con i crini. Più
lenta e riflessiva è Daydreaming, il secondo estratto dall’album.
Brano ambient, una ballata dolce, eterea, di impianto orchestrale
ed elettronico assieme. Qui forse più che altrove il dolore
di Thom si fa palese. Infatti sulle trame tristi degli archi e dell’onnipresente
piano la voce scivola come un lamento sconsolato. Segue Decks Dark,
metafora dell’oscurità decadente dal mood onirico, sofisticato,
che traduce e fa suoi certi richiami al trip hop. Belle le ritmiche,
ammaliante e maestoso il basso di Colin, viene fuori un groove da
paura, di quelli che ti entrano in testa e non escono più.
Il quarto brano, Desert Island Disk, è un distillato di accenti
folk, con chitarre acustiche che fanno il nido alla voce di Yorke,
qui più soffice e incantata che mai. Lo sfondo è percorso
da alcuni ceselli psichedelici di floydiana memoria, dati con serena
maestria, è proprio vero che la classe non è acqua,
infatti te ne accorgi solo dopo aver ascoltato la traccia diverse
volte. Il bello di certa musica, e i Radiohead in questo sono dei
veri assi, è tutta la musica che ci è nascosta dentro.
Bisogna saper scavare profondo. Che piacere per le orecchie. A seguire
Ful Stop, un galoppo krautrock che parte spalancandosi subito in crescendo,
è una roba febbrile, affascinante, c’è da trattenere
il fiato. Batteria, basso, una buona dose di elettronica. E accanimento
quanto basta. Poi Glass Eyes, questa danza lunare desolata presa in
prestito alla concertistica.
Toccanti gli archi. Una delicatezza la voce di Thom. La settima traccia
è Identikit, tra i pezzi più riusciti del disco. Già
conosciuto nella rocciosa e possente versione dal vivo, il brano esce
dai solchi raffinato, meno marziale, ma l’energia c’è
ancora tutta. Ha ritmiche incalzanti e le sovrapposizioni di voci,
per giunta in falsetto, sono singolari. The Numbers è uno dei
brani che sto amando di più, e non parlo solo di questi undici.
Ha un incedere possente, sontuoso. Gli echi settantiani, specie all’inizio,
sono forti, e settantiano è pure il groove di basso, davvero
micidiale, a mezza strada tra il funky e il progressive. Fanno capolino
tra le righe i grandi di tutti i tempi, qua e là mi vengono
in mente certi Who, certi ELP, e sono citazioni colte, gemme che impreziosiscono
con gusto tutto personale un pezzo già di per sé notevole.
È una vertigine a salire. Molto bello. Present Tens segue il
filone ecologista del precedente. Sorprende il ritmo latino, una bossa
nova, che viene qui riproposto con arrangiamento classico, commistione
curiosa ma sembra funzionare. Segue la psichedelica Tinker Tailor
Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief, altro capitolo
azzeccato dalla struttura complessa, che in finale regala una soluzione
da concerto grosso con tutti i legni schierati, ognuno a dire la sua.
Chiude il disco True Love Waits, portata sul palco tante di quelle
volte negli ultimi vent’anni ma registrata solo ora, vai a capire
perché. Poetica la versione per soli piano e voce. Praticamente
non c’è altro.
Resta da chiedersi perché rispolverare vecchi spartiti rimasti
accantonati per anni piuttosto che scrivere cose nuove. Qualcuno direbbe
che scarseggiano le idee, e può anche essere vero, non sto
a sindacare. Ma forse invece i Radiohead, grandi come sono, possono
ormai permettersi di fare quello che vogliono senza dover rendere
conto a nessuno. E comunque le chiacchiere stanno a zero. A Moon Shaped
Pool è un gran bel disco e i Radiohead, anche se non più
ragazzini, si confermano una delle realtà più multiformi
e dotate nel panorama musicale contemporaneo. Bentornati a casa. LM
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