Gli udinesi Rearth, nati dalla volontà del singer Simone Paoloni
e del chitarrista Fabio Tomasino, pubblicano il loro primo album,
dopo aver pubblicato un demo nel 2011 dal titolo Pure and Simple e
che viene qui interamente riproposto come bonus. Con un passato in
una band trash metal, l’intento dei due leader è di fare
una musica ricca di influenze, dal prog al metal al flamenco.
Il disco si apre con la dura “Pain For Loss”, un brano
cadenzato ai limiti del crossover, con alternanza di cantato growl
e pulito, un po’ in inglese e un po’ in italiano, le parti
ritmiche sono complesse e quelle melodiche ne seguono le trame, dando
vita ad intrecci sonori intriganti, anche se manca un po’ di
fluidità in certi passaggi. “Withered Rose” è
da subito più melodica, generando uno stacco brusco col brano
precedente, il cantato è abbastanza pulito e ci sono delle
belle linee vocali, essendo un pezzo lunghetto ci sono momenti diversi,
alcuni prog metal, altri onirici, bello il finale, nel complesso il
brano funziona. Con la lunga “Senz’Alba” si fa un
ulteriore passo avanti, entra il flamenco e l’avvio del pezzo
è piuttosto poetico, il mix che si crea è piuttosto
insolito, anche il cantato segue lo stile iniziale, poi il brano prende
ritmo e parte una sezione più prog un po’ caotica, poi
si cambia ancora, entra una sezione cantata dalla guest Sara Rainone,
alcune idee sono molto suggestive, però non rendono bene, il
lavoro di mixaggio potrebbe aver penalizzato gli sforzi fatti. Inoltre
nel complesso il brano mi sembra un po’ troppo lungo. Il quarto
e il quinto brano sono legati tra loro, si inizia con un arpeggio
delicato di chitarra, che poi nel brano successivo viene sviluppato
e si trasforma in un prog metal efficace. “Madre del Fato”
è un altro brano molto lungo, con parti molto diverse tra loro,
il gruppo ce la mette tutta per dar vita a soluzioni non banali, lo
sforzo riesce in buona parte, anche se il risultato non è così
fluido come sarebbe necessario. Da apprezzare anche l’utilizzo
dell’italiano, inserito in modo più che buono nel tessuto
sonoro. Un brano breve e delicato precede le intemperanze della conclusiva
“The Ideology of God”, una forte dose di rabbia, alla
band piace mescolare contrasti, questo però potrebbe spiazzare
qualche ascoltatore, ma nel complesso non è un male.
I brani restanti sono quelli del demo e sono cinque, sono utili per
familiarizzare con l’evoluzione del gruppo, che era molto più
metal, in alcuni frangenti mi hanno ricordato i Metallica per il cantato
maschile. Nel lotto spiccano la ricca “To My Faded Innocence”
e le melodie sognanti della conclusiva “Here She Comes”,
il resto mi ha colpito meno.
L’impegno che il gruppo ci ha messo è stato davvero tanto
e si sente, il meccanismo è ancora da oliare, ma penso che
la strada imboccata sia quella giusta. GB
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