Terzo sigillo per gli americani Ripper, una band del sottobosco horror
metal dalla vita tribolata e che solo grazie alla capacità della
label genovese è riuscita sia dare un seguito ai precedenti dischi,
sia a salvarli da un ingiusto anonimato. Il sound di questi mefistofelici
musicisti è un mix di Black Sabbath e Angelwitch, in altre parole
un heavy metal oscuro e dannato.
Non è un caso quindi se l’iniziale “Dead Dreams”
è retta da un riff marcatamente sabbathiano, ispirato da “Symptom
of the Universe”, anche la batteria ricorda molto quella del quartetto
di Birmingham, ma i Ripper non nascondono la loro simpatia per la band
inglese, infatti in chiusura c’è una cover sulfurea di
“Sabbath Bloody Sabbath” cantata insieme a Steve Sylvester.
“Fragrant Earth” è un classico heavy doom con alcuni
accenni psichedelici che non guastano, la band regala un vero affresco
del genere. “Morphinia” è costruita su un altro riffing
granitico, mi piace il cantato pulito e ricco di pathos del singer Rus
Gib, fortunatamente in controtendenza con molti colleghi. “Geneticide”
è molto cattiva, però mi convince meno di altri brani.
Interessante “Into the Realm”, teatrale ed epica, sembra
monolitica, ma poi presenta delle variazioni e una struttura tutt’altro
che banale. La prima parte del cd è più dinamica, questa
seconda sembra meno varia e la band sembra più voler definire
il proprio stile, senza scadere, ma anche senza grandi brividi. Bella
la cover del classico dei Sabbath, con un Sylvester molto ispirato,
anche se la resa molto metal mi sembra abbia tolto un po’ del
fascino originale al brano.
Per tutti gli amanti del metal più oscuro questo disco è
un vero must, non è un capolavoro, ma di sicuro starà
bene nella vostra discografia. GB |
Citati da Mario “The Black” Di Donato nella biografia
recentemente dedicata al grande Artista abruzzese, oggetto di ammirazione
(sovente non dichiarata esplicitamente) di addetti ai lavori/colleghi/appassionati
di cose dark, ai texani Ripper è toccato in sorte vestire panni
(scomodi) di cult-band. Ovvero venir confinati in quel limbo indefinito
ove giaccono testimonianze validissime, custodite gelosamente da pochi
cultori, e che talvolta trovano improvvisa glorificazione grazie ad
una nota inserita nello spazio dedicato ai ringraziamenti del booklet
di pubblicazioni che godono di più ampio respiro (anche perchè
in quel momento semplicemente di moda).
La Black Widow Records (e chi sennò?) si fece carico di riesumare
(letteralmente) il loro “…And the dead shall rise”
nel 2003 (il 31 ottobre, non a caso): questa operina di hard/metal
horrorifico, pubblicata originariamente in picture-LP nel 1986, causa
una tiratura non proprio ampia, rappresentò fino ad allora
una vera e propria leggenda. Giungiamo ai giorni nostri, ed la presente
Third witness: originariamente concepito per essere interpretato da
Steve Sylvester (presente comunque alle vocals sulla riuscita cover/omaggio
“Sabbath bloody sabbath”, inutile che vi ricordi chi la
compose, no?), è cantato intieramente da Rus Gib (una delle
peculiarità di “…And the dead…” era
rappresentata dalle vocals equamente divise tra tutti i membri della
band), con il carismatico Rob Graves, unico superstite della line-up
originale, che si limita a far ruggire le sue chitarre. Dark metal
dalle solide fondamenta hard (con dedica sentita a Ronnie Montrose,
non è un caso), con iniezioni di Pentagram-sound a rendere
il muro del suono eretto dal quartetto ancora più possente.
Oltre alla citata “Sabbath bloody sabbath”, da sottolineare
i densi impasti sonori di “Dead dreams” e di “Fragrant
earth”, “Goin’ green” interessata da un batterismo
serrato a-la Hasselvander (due sono gli skin-beaters accreditati,
Don Ramirez, con Stephen Bogle già presente su “The dead
have rizen” del 2009, e Robert Bogle), e la fumigante “Morphinia”,
episodio che esalta la coralità di un gruppo che altrimenti
parrebbe ridotto a solo-project dell’enigmatico Graves. Chiusura
affidata a “Sabbath bloody sabbath”, e qui il livello
si impenna, il confronto con la leggenda Sabbath induce i nostri a
dar fondo a tutte le loro risorse esecutive: rispettosa rilettura
di un brano che non necessita più di ulteriori coloriture.
Buon disco, Third witness, che magari suonerà datato ai più
giovincelli, ma sicuramente dotato di enigmatico fascino. AM
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