Un altro nome storico dell'hard rock/AOR torna a far sentire il proprio
ruggito in questo anno di (a volte) inaspettati rientri sulle scene,
ed ancora una volta sembra toccare alle vecchie glorie di tenere alto
il livello qualitativo del genere. Infatti, "Bangkok Rules"
è un disco esplosivo, energico e realizzato con la fierezza
di chi sa di aver ricevuto ingiustamente meno di quanto avrebbe meritato
e le dieci canzoni presentate sono qua a dimostrarlo senza ombra di
dubbio alcuno.
La titletrack dà fuoco alle polveri con un drumming incalzante
che guida il serrato riff chitarristico reminiscente del miglior class-metal
fine anni ottanta fra Dokken e Whitesnake, il tutto sovrastato dalla
virile e potente ugola di Paul, anche se lo scorrere degli anni lascia
il suo evidente segno. "Rock Don't Run" (con Frankie Banali
alla batteria) è più melodica e la buona interazione
fra tastiere e chitarre rende molto intrigante una canzone che in
altri tempi si sarebbe classificata come 'radio-friendly' grazie anche
ad un refrain anthemico e di facile memorizzazione. La più
cadenzata "Race To Nowhere" ripercorre a suo modo le strade
che furono degli Whitesnake di "1987" e dei Dokken di "Under
Lock & Key", la cui teatrale drammaticità trasmette
sensazioni che avvincono.
"Live Or Die Tryin" è un altro mid-tempo vincente
che tiene buona compagnia ed offre l'ennesimo chorus di facile presa,
un ennesimo esempio di class-rock anni ottanta riportato ai nostri
giorni senza ombra di inutile nostalgia, mentre il semplice rock di
"Love's Got A Mind Of Her Own" svolge senza infamia il proprio
ruolo di onesta riempi-disco e lascia spazio alla più dinamica
e pesante "Rocked And Loaded" con la quale la qualità
torna a farsi interessante pur restando in ambito hard rock melodico
alla Alice Cooper di fine anni ottanta.
La scaletta perfetta adesso richiede una (power) ballad ed ecco che
Sabu ci intrattiene con la sofferta "Read My Eyes", ricca
di pathos ed un fluido assolo che mi ha ricordato il miglior John
Sykes (Thin Lizzy, Whitesnake, Blue Murder), mentre la torrida "Black
Star" sa molto di un mix fra i Badlands di Jack E. Lee (molto)
ed i Bad Company (qualcosa), e "Code Blue" mi ha lasciato
perplesso con quel tentativo di coniugare i Led Zeppelin (di "Kashmir",
ovvio) con frasi rap. "Back The Jacks" chiude il disco con
un ritmo aggressivo e voci al limite del growl (ok, ce n'è
parecchia di distanza, ma neanche così tanta), ma in fin dei
conti ne avrei fatto tranquillamente a meno.
Tirando le somme, sette brani su dieci sono da avere e non fanno rimpiangere
l'acquisto, solo due sono superflue, una si può avere senza
creare turbative particolari. Paul Sabu torna con grinta e carattere
cercando di riacciuffare gli anni della vigorosa giovinezza e non
fa la figura del patetico 'matusa'... fateci un bel pensierino! ABe
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