Gli Spirits Burning non sono un vero e proprio gruppo, piuttosto sono
una specie di collettivo, così come loro amano definirsi, non
sono gli unici nel genere che propongono, lo Space Rock, in fondo
già i capostipiti del genere, gli Hawkwind, sono stati un collettivo
di artisti, un modo di fare musica molto libero che quindi è
nato alla fine degli anni ’60 e che affascina ancora oggi per
le grandi potenzialità espressive che offre, dalle lunghe jam
sessions con massicce dosi di improvvisazione, alle alchimie sempre
nuove che maturano dall’innesto di musicisti sempre diversi.
Ma quello che veramente sorprende leggendo le notizie su questo ensamble
capitanato da Don Falcone, sono i nomi coinvolti di cui vi metto solo
le partecipazioni principali: Daevid Allen (Gong), Captain Black (Hawkwind),
Graham Clark (Gong), Michael Moorcock (Hawkwind), Pete Pavli (High
Tide), Paul Williams (Quarkspace), Bridget Wishart (Hawkwind), ma
l’elenco comprende una quarantina di nomi, con band coinvolte
quasi per intero come i Dark Sun, Weird Bisquit Teatime, University
of Errors, Mushroom, ma anche qui l’elenco completo è
praticamente impossibile.
Quindi in questo progetto troviamo una cospicua presenza di mostri
sacri del rock sperimentale e psichedelico, senza dimenticare che
nel passato e nel presente degli Spirits Burning ci sono altre presenze
molto importanti (da Steve Wilson a Simon House, tanto per mettervi
un po’ di curiosità), quindi è lecito chiedersi
cosa dobbiamo aspettarci da un progetto così altisonante? Le
aspettative sono ovviamente alte e i quasi ottanta minuti di questo
quarto album (la loro discografia nel frattempo è già
arrivata a otto titoli, con altri due di prossima pubblicazione) non
deludono le attese, si tratta ovviamente di space rock psichedelico,
che fonda le proprie radici nella migliore tradizione settantiana,
c’è grande attenzione alle costruzioni melodiche dei
brani, che non sono mai “troppo” sperimentali, ma che
cercano di coniugare ricerca e gusto e in molti traccie il risultato
è davvero godibile. Le sedici canzoni non sono mai eccessivamente
lunghe e le parti cantate sono ben equilibrate rispetto a quelle strumentali
e in questo senso potrebbe sembrare quasi un disco atipico per chi
segue con passione lo space rock, ma le intenzioni dei nostri sono
chiare e si comprende subito come i testi occupino una parte decisiva
dell’album. Comunque sia quello che conta davvero è che
Alien Injection contiene dell’ottima musica, suonata con passione
vera da artisti che non guardano mai al profitto e alle mode, ma che
cercano solo di esprimere le proprie passioni musicali. Un messaggio
che forse sembra sempre più utopistico nella società
di oggi, ma che fa davvero bene e che è seguito anche da molti
giovani che vivono ancora nell’underground.
Se vogliamo parafrasare il titolo dell’album, gli “alieni”
sembrano essere proprio questi musicisti, che vogliono “iniettare”
nell’ascoltatore una sana voglia di musica fatta col cuore,
magari un po’ vintage in tanti passaggi, ma sincera e soprattutto
onesta. GB
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