Io
ho conosciuto gli Autumblaze del periodo più sperimentale e
intimista, con il gruppo che spaziava dal goth sound al prog, solo
oggi scopro che in origine erano un gruppo di dark metal, simili per
molti versi agli Anathema e agli Opeth, come loro hanno attraversato
diverse fasi creative. Con questo nuovo album questi musicisti sono
voluti tornare alle loro origini, quelle più metalliche e per
me è stato un brusco risveglio, tanto li avevo lodati prima
tanto mi hanno deluso adesso. La cosa che mi ha fatto pensare di più
è che le sperimentazioni messe in atto dalla band sono state
la causa del lungo stop del gruppo che ha quasi rischiato di sciogliersi,
ecco spiegato perché questo ritorno alle orgini.
Perdition Diaries non ha più nessuna traccia delle magie sonore
che avevo ascoltato nei tre lavori che lo hanno preceduto, da Lighthouses
in poi per intenderci, si tratta di dieci tracce di metal oscuro ai
limiti del black, lo chiamano dark metal e chiamano in causa i nomi
altisonanti di Paradise Lost, Anathema, Katatonia, My Dying Bride,
Dark Tranquillity e At The Gates, ma a me francamente sembra solo
una sterile involuzione, questo tipo di metallo è già
stato ampiamente esplorato e le minestre riscaldate non mi sono mai
piaciute. I primi cinque brani sono tutti nel segno di un black metal
con cantato gutturale, sono molto piatti e prevedibili, davvero poco
ispirati. Poi, a sorpresa, il sesto brano “Empty House”
torna ad esplorare atmosfere intimiste e notturne, una canzone epica
con incedere lento e solenne, sembra in fondo che gli Autumblaze siano
in piena crisi di identità, non che fare brani molto diversi
sia un disvalore, anzi, ma non si può passare da un metal truculento
ad atmosfere poetiche senza lasciare dei dubbi sulle reali intenzioni
della band. Con la traccia successiva, “Neugeburt”, poi
si torna ad un metal sulfureo, che non lascia spiragli di luce, ma
solo tanta sofferenza e dolore. A sorpresa poi con “Ways”
introducono una ballata romantica per pianoforte, lanciando ancora
più sconcerto nell’ascoltatore, ma per me la magia si
è già rotta. Ed ecco “The Forge” che ci
riprecipita in uno sgraziato inferno dantesco. Non meglio la conclusiva
“Saviour”.
Se questo disco fosse appartenuto alla prima parte della discografia
della band l’avrei giudicato molto diversamente, ma così
non è e per me è stata una vera delusione socprire che
un gruppo che aveva dimostrato talento si è rifugiato in un
album facile e qualunquista come questo. GB
Altre recensioni: Lighthouses; The
Mute Sessions; Perdition Diaries
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