Immagino che mediamente i nostri lettori sappiano che Steve Rothery
è lo storico chitarrista dei Marillion, per cui non vorrei
dilungarmi nelle solite note biografiche, piuttosto vorrei ricordare
che la band inglese è stata tra le prime ad utilizzare la raccolta
fondi per finanziare i propri progetti musicali, tour compresi e che
il successo è stato tale che hanno sempre raccolto più
soldi del necessario. Steve ha voluto percorrere la stessa strada
per la realizzazione di questo suo disco solista e ancora una volta,
questa rivoluzione di internet gli ha dato ragione. Ma non solo, oltre
al calore dei fans Steve ha raccolto anche il consenso di due pezzi
grossi del prog, Steve Hackett e Steven Wilson, che hanno prestato
il loro prezioso contributo all’amico.
L’idea sottostante il disco in questione covava da oltre vent’anni,
ma Rothery ha aspettato davvero a lungo per darle forma e portare
alla luce l’album. La svolta è stata l’incontro
col chitarrista Dave Foster e in seguito è stato determinante
anche la sezione ritmica composta da Yatim Halimi al basso e Leon
Parr alla batteria, completa la band il tastierista Riccardo Romano.
The Ghosts of Pripyat si compone di sette brani tutti strumentali.
Il primo è la sognante “Morpheus”, un brano liquido
che mostra subito l’abilità chitarristica del nostro.
Echi Pinkfloydiani si cesellano su un tessuto rock, che prende vita
in un crescendo molto ben congegnato e suonato ancora meglio, qui
troviamo il primo contributo di Hackett. “Kendris” all’inizio
ha dei profumi orientali, anche se la costruzione è molto prog
rock, poi pian piano tutto assume un aura solare, piena di vita, ottimo
brano. “The Old Man of the Sea” è il brano più
lungo e complesso, torna Hackett, ma troviamo anche Wilson, momenti
di puro lirismo si alternano a crescendo semplicemente perfetti. “White
Pass” è pure di una bellezza cristallina, anche se la
prima parte soffre un po’ il confronto coi brani precedenti,
però il finale si riscatta. “Yesterday’s End”continua
il discorso esplorando diversi campi, raggiungendo in alcuni momenti
delle dinamiche molto aggressive. “Summer’s End”
offre uno dei migliori crescendo del disco, con un chitarrismo fenomenale.
Chiude la title track che fa un po’ da sunto a tutto il disco,
l’ultima pennellata di un chitarrista sopra le righe, che accarezza
e graffia al tempo stesso.
Rothery è un signor musicista, mentre alcuni si interrogavano
sulla validità di quanto partorito dai “suoi” Marillion,
lui è andato avanti per la sua strada con coerenza e profetica
visione. GB
Altre recensioni: Live in Rome
Sito Web
Artisti correlati: Marillion
|