A sorpresa mi ritrovo tra le mani una novità luccicante, il
nuovo album degli Änglagård, questa volta del tutto inaspettato.
Arrivato in redazione per posta, a inviarlo nientemeno che Anna Holmgren.
Emozione grande. È un disco doppio, registrato dal vivo nel
marzo dello scorso anno in occasione di tre serate consecutive al
Club Città a Kanakawa, in Giappone, serate che i musicisti
svedesi hanno diviso con The Crimson ProjeKCt di Adrian Belew e compagni.
Già l’artwork, almeno per quanto riguarda questa copia,
promette molto bene. Ci hanno lavorato gli stessi musicisti, a quanto
pare i talenti sono molteplici. Nella cover un sole, ancora aria di
tarocchi, qui, e tra i raggi i ritratti dei cinque che formano ora
la line up del gruppo (Anna Holmgren, Johan Brand, Tord Lindman il
fondatore, che è recentemente tornato nel gruppo, e due new
entry, il batterista Erik Hammarström, subentrato a Mattias Ollson,
e alle tastiere Linus Kåse). Sulle due facciate interne una
bella istantanea del gruppo dipinta da Tord a china e acquarello.
Le tracce in totale sono sette, quattro nel primo disco, tre nel secondo.
A scorrere i titoli i pezzi cardine ci sono tutti e se qualcosa manca
è soltanto perché di dischi ce ne sarebbero voluti tre,
come i capolavori già sfornati finora. Si comincia con Introvertus
Fugu part I. Solo a sentire che qui c’è un pubblico che
acclama mi parte il brivido. In Giappone l’attenzione verso
il prog è sempre stata alta, ai tempi d’oro così
come oggi, e non c’è band progressiva che non sogni di
esibirsi laggiù o che non l’abbia già fatto. Perfino
i nostri artisti sono più seguiti lì che da noi, è
tutto dire. Tornando all’album, Introvertus Fugu inizia cauto,
il sound è originale, misto sapiente di classico e moderno
con inserti atonali e un uso accorto di suoni dal sapore vintage.
Si capisce più o meno da subito che i cinque sono macchine
da palcoscenico. Il livello tecnico è notevole, i due nuovi
entrati si dimostrano perfettamente a proprio agio e risulta spettacolare
l’affiatamento. Il brano è un inedito, segno che con
buona probabilità qualcosa di nuovo bolle in pentola, e se
il buongiorno si vede dal mattino c’è di che aspettarsi
roba buona. Il secondo pezzo è Hostsejd, vera gemma dell’era
Epilog. Un salto indietro di vent’anni ma la potenza è
la stessa e il fascino pure, anzi, dal vivo il brano esce perfino
più energico, anche merito di una strumentazione lievemente
rivista, con il sassofono che sostituisce il flauto nella prima linea
melodica. Segue Längtans Klocka, dall’ultimo disco realizzato
in studio. Bello l’accordo tra gli strumenti, tutto fila a meraviglia.
Anche in questo caso è il sassofono a portare aria nuova rispetto
al brano registrato in studio, ma nel complesso è rimasta uguale
la forza d’insieme, mentre il motivo di ispirazione circense
che apre l’ultima parte del brano acquista qui note perfino
losche. Il primo dei due dischi si chiude con uno dei cavalli di battaglia
della band, Jordrök, dall’album di esordio Hybris, forse
il brano più bello di tutta la carriera e senz’altro
il mio preferito. Splendida l’esecuzione dal vivo, la versione
che ne esce è più profonda, più di pancia di
quella registrata ventidue anni fa, magari meno impeccabile ma di
certo autentica fino all’osso.
Il secondo disco si apre con Sorgmantel, altro brano tratto dall’ultimo
album in studio. L’arrangiamento è un poco diverso rispetto
alla versione registrata e se è vero che dietro ogni passaggio,
specie all’inizio, si avverte una minore raffinatezza è
anche vero che il brano mostra qui un’anima che prima non aveva,
molto umana. Il ritmo è delicato e preciso, l’uso delle
percussioni, in special modo nella parte finale, dà contorni
più netti al tutto e il tema dell’intro, passato dalla
chitarra al basso al piano per tutta la lunghezza della traccia, rende
ancora più evidente la natura di fuga del pezzo. Ancora un
balzo all’indietro nel tempo, con Kung Bore, altra perla di
Hybris. Versione splendida di un brano già splendido, trova
qui, nelle potenti linee di basso, un’energia tutta nuova. Gran
bel passaggio il ponte nella parte centrale del pezzo, la scrittura
è tesa, si avverte il caricarsi di qualcosa. Il lavoro di percussioni
è magnificamente suggestivo e il finale è da capogiro,
mi immagino che emozione trovarsi sotto il palco mentre ti suonano
davanti una cosa del genere. Sigilla l’opera la bella Sista
Somrar, che si apre con un’intro lenta, oscura, di grande spessore
acustico. La versione qui proposta è perfino più profonda
di quella orginale, che pure era già così intima, e
su ogni nota il basso di Brand stende tinte di nero assoluto. Il finale
è mozzafiato.
Anche il secondo disco è finito. Ricomincio da capo, l’ascolto
va gustato molte volte, una non basta. Una cosa è certa: gli
angeli del prog neppure stavolta si sono smentiti. Quest’opera
è un signor lavoro, ne viene fuori l’immagine di musicisti
maturi, che la lontananza dalle scene ha in qualche modo forgiato
al meglio. Consigliato a chi ama la musica, per davvero però.
LM
Altre recensioni: Hybris; Epilog;
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