Rock Impressions
 

INTERVISTA A STEVE HOWE
di Michele Maestrini

Ciao Steve, dopo molti album solisti ti ritroviamo oggi con una band vera e propria chiamata Remedy… quali sono le differenze fra questo nuovo progetto e i tuoi dischi precedenti?
Questo nuovo progetto può sicuramente essere visto come un proseguimento dei miei album solisti. La differenza è che questa volta non si tratta solo di una mia creazione personale, dove io suono la chitarra e dirigo tutto quello che c’è intorno a me; mi stavo stancando di questo modo di lavorare e pensavo che in questo periodo mi ci voleva veramente un cambiamento. Devi sapere che album come Natural Timbre, pur essendo divertenti, richiedono molto tempo e duro lavoro. Credo che fosse il momento di fare qualcosa di nuovo e di avere una posizione in un gruppo, che mi avrebbe permesso di ottenere qualcosa di più vario e rilassante. In questo modo inoltre faccio sì che ci sia una distribuzione di responsabilità all’interno della band e non che tutto il peso ricada solo sulle mie spalle.

Ovviamente siamo rimasti molto sorpresi dal tuo precedente album, Skyline… perché hai scelto di sperimentare un progetto del genere?
Il mio scopo è sempre quello di sperimentare o inventare stili interessanti, in modo da creare sempre un nuovo disco diverso dal precedente. Skyline è un album molto lento, atmosferico, melodico e non molto ritmato. Mi sono divertito molto ad avere tutta questa libertà espressiva e penso che sia esattamente il segreto per fare un album con uno stile personale. Mi riferisco al sound dell’album cioè al sound che abbiamo creato io e Paul; comunque in Skyline è stato molto difficile perché rappresentavamo due ingredienti molto diversi fra loro, e alla fine siamo riusciti a combinarli, sia quando abbiamo registrato in Svizzera, sia quando sono tornato nel mio studio personale e credo che il risultato finale sia stato ottimo.

Sei sempre molto impegnato con gli Yes, è stato difficile trovare il tempo per comporre le canzoni presenti in Elements?
No, non trovo mai grosse difficoltà a creare e a comporre musica perché devi sapere che conservo un grande numero di canzoni inedite e di assoli e il mio album è solo una piccola parte di tutto questo repertorio; recentemente mi sono concentrato su dieci canzoni e di queste dieci ne ho messe da parte cinque pensando che avrebbero potuto interessare gli Yes. In questo modo mantengo una certa fiducia nel futuro e ho un bagaglio di svariati pezzi che posso utilizzare al momento del bisogno, a seconda dello stile e del contesto in cui sono richiesti.

Quindi quando componi una canzone non decidi fin dall’inizio se sarà parte del repertorio degli Yes o se entrerà a far parte di un tuo album solista?
No, lo decido solo successivamente. Come ti dicevo, ne ho messe alcune da parte per gli Yes che sono state scritte nella primavera del 2001 e da allora non ho avuto molto tempo per riguardarle; ne ho utilizzata solamente una per Elements che è Where I Belong. Sono soddisfatto di questo mio modo di lavorare e non è solo autocompiacimento, ma è come se dicessi a me stesso che ho creato un sacco di musica e devo solo sedermi un attimo a pensarci su e a sistemarla. In questo modo è facile andare a riprendere i pezzi quando ne ho la necessità, e cambiarli o modificarli a mio piacimento togliendo, ad esempio, le parole e mettendoci magari un assolo di chitarra.

In Elements c’è la presenza dei tuoi due figli alla batteria e alle tastiere; come ti trovi a suonare con loro? Hanno contribuito alla composizione delle canzoni?
No, ho composto io tutta la musica. Dylan e Virgil però, soprattutto il primo, l’hanno considerata un opportunità per metterci il loro contributo in quanto entrambi sono stati parte integrante nello sviluppo finale delle canzoni. Questa relazione artistica è iniziata quando erano giovani, suonavo molto a casa e hanno sempre respirato una certa atmosfera fin da piccoli. In seguito hanno scelto di imparare a suonare qualche strumento e successivamente hanno deciso di prendere sul serio la cosa; si può dire che abbiano imparato quasi senza accorgersene in quanto la musica gli è venuta naturale e nessuno gli ha mai imposto niente. Dieci anni fa Dylan ha suonato nel mio album The Grand Scheme Of Things e da allora, quando avevo bisogno di un batterista, lui è sempre stato disponibile a lavorare con me. Virgil ha avuto un’evoluzione un po’ più lenta perché probabilmente è più giovane. Anche lui comunque ha iniziato a suonare le tastiere nello stesso disco.

Il tuo è uno stile unico nel panorama rock e sicuramente uno dei più originali. Qual è il tuo segreto?
Ah, non te lo direi di certo se lo sapessi (risate)! Seriamente, non ho davvero nessun segreto, ho solamente molta ambizione e tanta passione per le cose che faccio. Quando iniziai a suonare avevo un certo modo di pensare riguardo la chitarra e pensavo che ciò di cui avevo bisogno fosse di avere uno stile perfettamente riconoscibile, che mi identificasse immediatamente. Si è trattato di una ricerca lunga che non si è sviluppata dal giorno alla notte. La cosa buffa è che quando raggiunsi il mio sound ideale, non seppi neanche tanto bene cosa farne, quindi il passo successivo fu quello di concentrarmi sulle tecniche di produzione e sulla composizione di canzoni vere e proprie. Devo dire che questo fu uno strumento davvero utile, perché imparai a costruire le mie composizioni attorno al suono che mi ero creato. A quel punto, quando riconobbi di avere questo potenziale, di scrivere riff e di comporre, mi abituai a creare la musica da aggiungere alle liriche di altri artisti e questo mi aiutò ad imparare molte cose. Ad esempio, se una canzone non aveva un’introduzione io la scrivevo, questo è il processo creativo che ho utilizzato con Jon (nda Anderson voce degli Yes) un sacco di volte. Questo modo di fare musica si aggiunse alla mia naturale predisposizione di cercare sempre nuove soluzioni e di sperimentare cose nuove il che rafforzò la mia passione per la chitarra. Non è un problema sul tipo di tecnica da utilizzare, ma sul modo in cui la utilizzi.

Che tipo di musica ti piace ascoltare al giorno d’oggi?
Nei momenti in cui mi piace rilassarmi ascolto musica molto varia e molte cose diverse fra loro. Prevalentemente mi piace ascoltare la musica d'altri tempi, quella suonata con strumenti a corde, come il liuto e il mandolino e mi piace spaziare ascoltando artisti che provengono da nazioni diverse, come l’Italia o la Spagna. Mi piace un suono pulito e melodico, con caratteristiche quasi da musica Pop ma con una profondità e una ricercatezza maggiori.

Mi puoi citare qualche chitarrista che ti piace?
Chet Atkins è stato sicuramente la mia maggiore influenza e una grande fonte di ispirazione, credo che potrei ascoltare la sua musica per ore e in ogni momento. Tendo comunque ad alternare ascolti di generi diversi in periodi diversi; recentemente, ad esempio, mi sono concentrato molto sulla musica Country, mentre qualche anno fa ascoltavo alcuni pionieri della chitarra come Alison Krauss e chitarristi Bluegrass. Amo molto anche artisti tipicamente jazz come Gill Evans o Art Blake, gente che creava un sound davvero incredibile, inoltre adoro ascoltare musicisti come Albert Lee e Martin Taylor; proprio quest’ultimo per me ha rappresentato uno stimolo molto forte quando l’ho incontrato nei primi anni novanta. Ripensando al passato, comunque, la musica Country è stata forse la mia più profonda influenza in quanto Chet Atkins era fondamentalmente un musicista che faceva parte di quel genere. Come puoi vedere mi piacciono un sacco di musicisti diversi fra loro e, alla fine, quello che cerco di fare è di utilizzare tutte queste influenze e queste tecniche che ho assimilato e mixarle per creare qualcosa di diverso e di unico nel suo genere.
Per quanto riguarda chitarristi più recenti ti posso nominare Steve Morse, in quanto mi sembra che possieda le caratteristiche di questi pionieri della chitarra e utilizzi un approccio simile a quello di quegli anni.

Sei sempre stato considerato un chitarrista eccellente e virtuoso; quanto credi sia importante la tecnica per produrre musica?
Lo studio e l’apprendimento di uno strumento non si fermano ad un certo punto stabilito, ma continuano per sempre e credo che questa consapevolezza sia davvero fondamentale per un musicista, per far si che continui a migliorarsi e per produrre cose sempre migliori. Di sicuro devi avere una grande passione per lo strumento, perché se non vuoi fare determinati sforzi non sarai mai in grado di raggiungere un certo livello. La cosa difficile, però, è soprattutto avere delle idee musicali che valgono e il segreto è riuscire a combinare queste due cose in maniera perfetta. Questo è un problema che può essere visto in due modi diversi… un pezzo può essere difficile nella maniera in cui non riesci a suonarlo o può essere difficile perché il sound è difficile. Anche la musica brutta può essere molto difficile a volte, quindi difficile non vuol dire necessariamente anche bello. Di sicuro se non hai una buona abilità potrbbero venir meno molte opportunità di esprimerti liberamente, anche se la mia opinione è che prima della tecnica vengano le emozioni. Il mondo è pieno di chitarristi e di cantanti molto dotati tecnicamente, ma che a livello emozionale esprimono veramente poco. Io sono abituato a questi discorsi perché, come ben saprai, negli anni settanta mi dicevano che suonavo troppe note, poi negli anni ottanta mi dicevano che ne suonavo anche il doppio (risate)! Credo che questi discorsi siano veramente inutili in quanto è il risultato che conta, e se in questo modo si riesce a creare qualcosa di meraviglioso, allora tutti i discorsi e le critiche lasciano il tempo che trovano. Le persone che ascoltano la musica solo per la tecnica credo siano veramente poche, l’ascoltatore cerca una bella esperienza musicale che gli faccia passare dei bei momenti e che gli piaccia nella sua totalità e non solamente per qualche assolo di chitarra in più.

Quali sono le diverse emozioni che provi quando suoni da solo davanti ad un centinaio di persone o con gli Yes al completo davanti a migliaia?
Ovviamente suonare in un posto piccolo e per poche persone in un atmosfera molto intima è un’esperienza molto diversa rispetto a suonare in un luogo molto grande con migliaia di persone. In entrambi i casi, per fare in modo che il risultato sia buono, bisogna pensare a due tipi di performance molto diversi. In tutti questi anni caratterizzati da numerosi concerti differenti ho imparato a lavorare in entrambe le situazioni, sia in larga scala che in piccola scala; quando suoni per moltissima gente le persone diventano una massa unica che interagisce e forma una specie di onda energetica, mentre in scala ridotta si crea un meraviglioso rapporto, più intimo e più vicino con il pubblico, che può sentire ogni cosa che accade sul palco e può avvertire ogni mio movimento e sentire costantemente la mia voce. Entrambe le tipologie di concerti sono stupende e fanno parte del mio modo di essere e di suonare.

Ho avuto la fortuna di vederti solista nel 2000 a Mantova in un bellissimo teatro antico e credo sia stata un’esperienza stupenda; che ricordi hai di quel concerto?
Ricordo davvero bene quella sera per diversi motivi; fu una decisione dell’ultim’ora di trasferire il concerto in quel teatro (nda il teatro Bibiena di Mantova) e non appena vi entrai me ne innamorai all’istante e pensai subito che sarebbe stato davvero un concerto fantastico. Al momento dell’entrata riuscii a stabilire un forte legame con l’edificio e, guardando le pareti e il bellissimo soffitto, la mia tecnica venne fuori in tutta la sua essenza; andai veramente fuori di testa quella sera in quando mi dissero che anche Mozart aveva suonato fra quelle pareti e fui davvero emozionato all’idea di poter suonare in un posto dove avevano suonato i più grandi compositori che adoro. Guardandola adesso la ricordo come un’esperienza meravigliosa e ti dirò che non so se riuscirei a suonare meglio di come ho suonato quella sera; amavo il posto, amavo la gente… e la risposta del pubblico è stata così intensa che il risultato è stato davvero stupefacente. Non dimenticherò mai quel concerto.

Qual è l’album che preferisci della tua carriera solista?
Questa è davero una domanda difficile in quanto ogni album ha rappresentato qualcosa di importante per me e sono tutti come una sorta di rappresentazione della mia vita. Al momento non riesco a pensare a nessun album che mi piaccia di più di Elements. Certo, Beginnings e The Steve Howe Album sono stati molto importanti, ma rappresentano una parte della mia vita che ho lasciato negli anni settanta; poi c’è stato un salto di dieci anni e la produzione di Turbulence, nel quale ho sviluppato un nuovo metodo di composizione, come in “Inner Battle” in cui ho composto due parti diverse che sono convogliate nella canzone finale. In questo modo è molto difficile ascoltare questo pezzo, a meno che non ci si concentri su una melodia lasciando da parte l’altra. Il risultato è stata una canzone in 13/8 e fui un po’ imbarazzato quando chiesi a Bill (Bruford) se era in grado di suonare su quel pezzo e lui mi rispose “certamente!” e suonò in modo tale da non suonare mai la stessa cosa nello stesso bit. Sarebbe stato ceratamente più semplice se avesse suonato in 12/8 e in effetti a volte sembra che sia così, specialmente man mano che la canzone prosegue. Quindi anche Turbulence è stato un album molto importante, non per la tecnologia utilizzata ma per il metodo compositivo. Come puoi vedere ogni mio album rappresenta esattamente la mia vita in quel preciso istante e le mie sperimentazioni di quel periodo e quindi puoi capire bene perché al momento considero Elements come il mio preferito.

Sembra davvero un momento magico per gli Yes: la compilation del trentacinquesimo anniversario, il box set “In A Word”, i nuovi remasters della Rhino e un dvd in arrivo... come spieghi questa sorta di seconda giovinezza che state vivendo?
Seconda giovinezza? (risate). Credo sia solamente dovuto al fatto che oggi abbiamo più persone dietro di noi che si occupano degli aspetti promozionali. L’interessamento della Rhino nel voler riprendere i nostri album e rimasterizzarli con bonus tracks e l’uscita del box set “In A Word” hanno rappresentato un punto di svolta per la band e inoltre il ritorno di Rick (Wakeman) come membro stabile ha destato molto interesse e ha ristabilito la line-up ufficiale. Abbiamo cercato di dare questa svolta anche nel 1996, ma il discorso era diverso in quanto il ritorno di Rick fu solamente temporaneo e i nostri progetti insieme caddero nel vuoto. Quello che mi piacerebbe fare con la band è di cambiare costantemente il repertorio e di cercare sempre nuove realtà eccitanti; è un po’ quello che abbiamo cercato di fare in passato con il Masterworks tour o con il tour sinfonico e in tempi più recenti con l’aggiunta di date in Giappone e in Australia.

Assistendo ai vostri ultimi concerti ho notato una band in forma smagliante e sembrava che ognuno sul palco si divertisse come non accadeva da tempo; il ritorno di Rick ha favorito qusta nuova condizione di stabilità?
Non vorrei fare pubblicità a Rick (risate), ma con il suo ritorno la band ha raggiunto la sua vera line-up e sono veramente orgoglioso e felice di questo. Il suo ritorno ha fatto la differenza in quanto non ero mai pienamente soddisfatto di come i tastieristi che lo hanno sostituito si approcciavano e rendevano le sue parti di tastiera; certo, erano molto bravi e le suonavano praticamente nota per nota..., ma non era mai esattamente la stessa cosa e non era come avere Rick alle nostre spalle. Questa condizione poteva essere vista come una sorta di puzzle, che non riuscivamo mai a completare in quanto mancava l’ultimo tassello e Rick era proprio questa parte mancante, ma con il suo ritorno ha completato la figura. L’avere Rick ancora con noi può essere visto come un modo per mantenere un ponte con le nostre origini e con gli anni settanta, pur mantenendo l’idea che la band deve evolversi verso nuovi territori. Credo proprio che gli Yes non siano più interessati a creare canzoni pop… o per lo meno è quello che spero! Quello che vogliamo fare è semplicemente ritrovare il nostro vero sound e il ritorno di Rick è proprio quello che ci vuole per ristabilire il nostro legame musicale col passato. Non si tratta solo di un fatto puramente musicale, ma c’è una spititualità profonda all’interno della band, intesa principalmente come gruppo di persone e non solo come musicisti.

Ho apprezzato molto il tuo rifacimento di “Turn Of The Century” con Annie Haslam, la cantante dei Renaissance, alla voce e ho sentito in passato voci che parlavano di un album insieme… mi puoi dire qualcosa di più?
Abbiamo discusso di questo progetto negli anni passati e abbiamo qualche registrazione e alcuni demo tape che abbiamo registrato nel mio studio personale. Il problema principale è stato sempre quello di trovarsi e mettersi a lavorare su questo materiale. Come puoi capire è stato sempre principalmente un problema di tempo in quanto siamo sempre in giro entrambi. Mi sarebbe veramente piaciuto creare un duo professionale con lei, perché ha una voce stupenda, ma due anni fa abbiamo messo la parola fine a questo progetto perché non ci portava da nessuna parte e inoltre la label non era molto interessata alla produzione di un nostro eventuale album. Ed è così che sono andate le cose.

Trovi delle difficoltà nel portare on stage tutti i diversi strumenti che utilizzi durante un concerto degli Yes?
Si, è abbastanza difficile. La mia sfida personale è di riuscire a portare sul palco il minor numero di strumenti possibile, in quanto normalmente non ne uso meno di dieci. Credo che in futuro la cosa si semplificherà, non perché lo debba fare necessariamente, ma perché in generale tendo ad amare le semplificazioni. Avere tante chitarre sul palco è una cosa che mi piace molto e amo suonare strumenti diversi per parti diverse, il che potrebbe sembrare solo una questione coreografica, ma è sopprattutto legata alle mie diverse tecniche. Fa tutto parte del mio show e del mio sound e molte cose che faccio non suonerebbero allo stesso modo se utilizzassi sempre la stessa chitarra; tendo quindi ad averne il più possibile… anche se non arrivo mai a venti! (risate)
In futuro comunque voglio cercare di diventare il più indipendente possibile e quindi voglio limitare il numero di strumenti a mia disposizione. Ovviamente ci sono strumenti che porterò sempre con me, come la steel guitar… che non è propriamente una chitarra. La tendenza comunque è verso l’utilizzo di nuove tecnologie moderne e nuove chitarre, ma al momento mi piacciono ancora quelle vecchie, specialmente quelle acustiche.

Nell’ultimo tour con gli Yes si è avverato un sogno per molti fans, ovvero l’esecuzione di Southside Of The Sky, una canzone che non suonavate da tempo immemore. Avete in mente altre sorprese nei tour futuri?
Si, credo proprio che l’elemento sorpresa sia l’ingrediente chiave per il tour che intraprenderemo con la band il prossimo anno e avremo sicuramente nuove canzoni da proporre. Ovviamente non possiamo cambiare troppe cose ma abbiamo un vasto repertorio a cui attingere e molte canzoni non le abbiamo mai suonate o non le suoniamo da molto tempo. Abbiamo molto materiale dei primi anni settanta e credo che dovremo riprenderlo in mano per poterlo riproporre nei nostri prossimi concerti.

Puoi anticiparmi qualcosa sui nuovi pezzi che verranno inclusi nell’edizione americana della compilation del trentacinquesimo anniversario?
Allo stato attuale delle cose non so se è già stato realizzato qualcosa di ufficiale; mi piacerebbe darti delle anteprime, ma non conosco le tempistiche di uscita della raccolta. Sono a conoscenza del fatto che ci sono tantissime persone che girano in internet cercando qualche novità e qualche pettegolezzo a riguardo. Quello che ti posso dire è che ci saranno due o tre canzoni tradizionali e forse alcuni pezzi dei singoli musicisti in versioni soliste.

Hai raggiunto molti traguardi nella tua carriera… qual è la tua sfida per il futuro?
Non ho un particolare obiettivo per il mio futuro e non sto necessariamente cercando di fare il camaleonte, nel senso di cercare cambiamenti a tutti i costi. Sono quello che sono e non credo che necessariamente esplorerò nuovi campi, ma spero di continuare ad assimilare idee musicali e di produrre cose che riescano a sorprendermi continuamente. Come chitarrista il mio scopo principale è creare melodie sempre migliori e suonare le mie canzoni dal vivo. Non ho la necessità di avere altri tipi di chitarre perché ottengo il suono che voglio dalle mie chitarre acustiche e dalla mia Gibson Les Paul del 1956. Il mio chitarrista preferito Chet Atkins ricavava il suono che voleva dalle sue chitarre elettriche, io invece tendo a trovare il mio sound da quelle acustiche. La mia sfida per il futuro? Forse riuscire a suonare bene come Chet!

Un’ultima domanda di rito, hai intenzione di intraprendere un tour con i Remedy?
Si, c’è l’intenzione di andare in tour con la band a Marzo dell’anno prossimo; probabilmente il tour vedrà coinvolte l’Inghilterra e l’Europa e per quanto riguarda l’America se ne parlerà soltanto verso la fine dell’anno. In questi cinque mesi che ci separano dall’inizio del tour potremo pianificare bene le date e sicuramente cercherò di inserire anche l’Italia, perché è un posto in cui adoro suonare, quindi state attenti, perché probabilmente fra non molto ci vedremo nel vostro paese!

MM

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