Ho seguito con grande interesse l’evoluzione dei Pineapple Thief
e spesso sono rimasto affascinato dalle loro proposte passate, motivi
sufficienti per essere molto curioso riguardo a questo loro nuovo
album, il decimo di una prestigiosa discografia, tra l’altro
non è irrilevante il fatto di essersi accasati presso la stessa
prestigiosa label di Steven Wilson, che ospita nomi di spicco della
scena prog post moderna. Oggi la band di Bruce Soord forse è
meno sperimentale e mette a frutto la decennale esperienza per dar
vita ad un sound morbido estremamente elegante, come ben rappresenta
anche l’artwork del disco, curato dall’artista francese
Patrick Gonzales.
Il cd si apre con “Simple as That”, devo dire che sembra
di ascoltare gli ultimi Anathema, non è proprio una bella sensazione,
il brano è molto ben costruito, ottimo l’impasto e la
resa, la band è molto matura, però sembra meno originale
rispetto al passato. Anche “Alone at the Sea” si inserisce
nel filone di prog post moderno che sembra oggi molto più omologato
di quanto si pensava solo qualche anno fa. Siamo sempre in presenza
di un prodotto altamente ben confezionato, che in alcuni momenti possiede
pure un certo vigore, ma manca il brivido. “Don’t Tell
Me” attacca con una malinconia sofisticata, ma molto scontata,
che poi si incanala in un crescendo abbastanza prevedibile. “Magnolia”
è un altro brano estremamente elegante, di una perfezione cristallina,
ma ancora una volta quello che manca è quella scintilla che
fa emozionare. “Seasons Past” rispetto a quanto abbiamo
detto è anche un passo indietro, non c’è traccia
della voglia di esplorare nuove strade, sembra piuttosto che il gruppo
abbia voluto rifugiarsi in un territorio sicuro. Non basta la claustrofobica
“The One You Left to Die” a rialzare le sorti del disco,
anche se questo brano mi piace di più. “Breathe”
sembra partire bene, con un giro vorticoso, ma è solo un’illusione,
i toni si ammorbidiscono subito, anche troppo, non si tratta mai di
brani brutti, ma sanno tutti di già sentito, se non come melodie,
come costruzione del pezzo. Perfino “Sense of Fear”, che
inizia in modo energico e pulsante, riesce ad addomesticarsi in una
trama elegante e raffinata nelle parti cantate. “A Loneliness”
ha una bella linea melodica, ma non si stacca dal resto del cd. Chiude
l’unico brano che mi abbia veramente detto qualcosa, “Bond”,
non serve certo a riscattare l’impressione complessiva, ma almeno
mi lascia qualcosa anche se siamo alla fine del disco.
Considero questo Magnolia un passo falso, per me i tPT restano una
band interessante e da tenere d’occhio, speriamo solo che nel
futuro tornino a sperimentare, qui sembrano aver voluto giocare solo
sul sicuro e se fosse non è mai una scelta vincente. GB
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