INTERVISTA
AD ENRICO RUGGERI
di Giancarlo Bolther
La tua ultima uscita è stato il dvd, ma non si è
trattato del solito concerto, hai cercato di sfruttare le potenzialità
del supporto per offrire qualcosa di diverso…
Il dvd può essere una grande occasione, intanto mi
piace perché contiene in se una bella selezione naturale, nel
senso che gli errori di un’estate non possono fare un dvd. Per
realizzarne uno devi avere molta carne al fuoco, devi avere della
storia. Il mio è stato un tentativo, perché nessuno
di noi sa come ascolteremo la musica tra dieci anni o come la vedremo,
ma è un’occasione per far vedere quello che vuoi. Nel
mio caso ho voluto far vedere un bel concerto e farlo sentire con
tutti i crismi, perché nel primo dei due dvd c’è
anche la possibilità di ascolto in 5.1 dolby surround e si
sente qualsiasi respiro ci fosse in quel teatro e poi nel secondo
dvd ho fatto vedere tutta una serie di cose che non potevano essere
contenute in un supporto tradizionale. Quindi viaggi, riprese amatoriali,
scherzi di tutti i tipi ed evidenziare la grande varietà delle
cose che abbiamo fatto, perché ci sono concerti fatti in teatro
per voce, chitarra acustica e fisarmonica e c’è il concerto
del Thunder Road dove facciamo pezzi dei Sex Pistols. Per cui c’è
veramente di tutto e penso che una carriera come la mia si prestasse
particolarmente a fare un dvd di questo genere.
Ho
notato ai tuoi concerti che hai un rapporto molto diretto coi tuoi
fans…
La parte più divertente del mio lavoro è di
gran lunga quella di fare concerti, ovviamente. Vai in giro coi tuoi
amici, vedi delle città, rivedi gente che non vedi da anni,
quindi è un modo per divertirsi e andare a trovare la gente
e anche il concerto risente di questo. Il fatto che io sul palco abbia
sempre avuto delle persone con le quali ho sempre avuto un buon rapporto
interpersonale o addirittura che erano proprio amici penso si rispecchi
nel concerto.
Nelle tue canzoni ci sono alcuni temi che ricorrono e mi piacerebbe
approfondirne qualcuno con te. Il primo che mi viene in mente è
il “mi devo raccontare”, perché senti così
pressante il bisogno di raccontarti con le tue canzoni?
Ovviamente le mie canzoni sono parecchio autobiografiche,
non sono solo il sistema per raccontarmi, ma anche per conoscermi
meglio, ci sono cose di me stesso che non mi sono perfettamente chiare
fino al momento in cui le imprimo in una canzone. Io interpreto il
concetto di autobiografia in senso abbastanza ampio. Ad esempio incontro
una persona quando scendo a comprarmi le sigarette e mi fermo un minuto
a parlare con lui, questo magari mi racconta una cosa apparentemente
insignificante della sua vita e io ci costruisco sopra un castello,
quindi è una via di mezzo fra l’autobiografia e la fantasia,
un volo pindarico. "Il Portiere di Notte", per esempio,
è nata perché col mio lavoro ho conosciuto migliaia
di portieri di notte, per cui da li ho pensato “che lavoro strano
stare li tutta la notte ad organizzare la vita degli altri.”
Da una considerazione apparentemente non poetica poi ho costruito
la storia di questo portiere di notte trasferito in un albergo quasi
di malaffare, che si innamora di una prostituta che opera in quell’albergo.
A volte ho avuto l’impressione che tu ti senta un po’
incompreso…
In verità siamo tutti un po’ incompresi, nel
senso che tutto quello che abbiamo dentro è difficile che arrivi
esattamente così com’è al nostro prossimo. Quando
scrivi una canzone spesso poni l’accento sulle cose più
spettacolari e che a volte sono anche quelle più negative della
vita, ad esempio mi è capitato ancora di avere un piccolo diverbio
con la fidanzata e poi di scrivere una cazone dove due si lasciano
e non si vedranno più, quindi è anche un po’ una
deformazione quella di amplificare le cose che ti succedono, anche
in negativo, per renderle più spettacolari.
Oggi si sente dire che la comunicazione è in crisi
e sembra un paradosso perché viviamo nell’epoca della
comunicazione totale, in effetti la gente preferisce comunicare con
le chat con le e-mail con gli sms, oppure guarda trasmissioni dove
altri comunicano e poi non riesce a parlare col proprio vicino di
casa… tu cosa pensi di questa situazione?
Non è che la comunicazione sia in crisi, sta cambiando
il modo di comunicare. Abbiamo tutti un po’ paura evidentemente,
non c’è altra spiegazione del perché uno passi
la notte a chattare con uno di Melbourne e poi la mattina faccia fatica
a salutare il vicino di pianerottolo o che addirittura ignori chi
è che vive al di la del muro di casa sua. Evidentemente la
tecnologia ha esasperato quello che c’è che non va in
noi, siamo diventati un po’ diffidenti e un po’ ostili.
E’ come quando da ragazzo incontravi una persona e magari passavi
tutta la notte a raccontargli la tua vita, mentre a tuo fratello non
dicevi niente, è un po’ insito nell’intimo umano.
Per quanto riguarda invece quelli che comunicano in televisione io
ho l’impressione che sia veramente tutto finto, è tutto
in funzione dello spettacolo, addirittura anche le cose “vere”
diventano spettacolo. Nel momento in cui vai in televisione non sai
più esattamente quanto sei sincero, è il mezzo che ti
porta in qualche modo a sdoppiarti e a recitare.
Un’altra immagine simbolo che usi spesso è quella
della fotografia, che rapporto hai con questo ogetto/strumento?
Per altro è strano, perché non ho un rapporto
molto stretto, intanto non ho la macchina fotografica. Ogni tanto
qualche amico mi chiede di scattare una foto, ma vengono sempre mosse
perché sono un disastro a scattare le foto. E’ più
una metafora, tra l’altro quando mi danno i servizi fotografici
da valutare, mi annoio subito. Quindi è assolutamente più
una metafora piuttosto che un amore vero nei confronti del mezzo,
la metafora di quello che ti porti dentro. L’album di fotografie,
per come lo vivo io nelle canzoni, è più una cosa interiore,
una serie di immagini e di ricordi che non hanno necessariamente bisogno
di essere impressi in una fotografia.
Sei sempre stato un autore molto attento ai testi, cosa pensi
dei messaggi talvolta violenti che accompagnano la musica rock e sulla
loro influenza sui giovani?
Intanto bisogna fare una premessa, nel mondo anglosassone
il testo è molto meno importante che non nel mondo italiano,
francese e in qualche modo europeo e brasiliano. Però gli inglesi
e gli americani hanno una lingua molto musicale, che si presta molto
di più al rock perché è fatta di sillabe tronche
e non piane, quindi accentate sull’ultima sillaba, per cui è
più facile. Non è un caso se le canzoni italiane finiscono
tutte con parole come: perché, però, sì, no,
questo perché hanno bisogno dell’accento sull’ultima
sillaba. Fatta questa premessa, molto spesso tradurre testi inglesi
e americani è stata un po’ una delusione per chi l’ha
fatto. Molto spesso i testi sono più degli slogan, per cui
mi sembra che i testi, in particolare quelli heavy metal, hanno usato
più immagini funzionali e spettacolari, che sevono a rendere
ancora più pieno lo spettacolo del rock, poi è chiaro
che nel momento in cui i ragazzini hanno bisogno di contrapporre qualcosa
ai loro genitori, allora può succedere che un ragazzino si
impossessi eccessivamente dei testi che possiamo definire, tra virgolette,
satanici, però al di la di qualche patologia che c’è
sempre stata, mi sembra che sia tutto abbastanza normale. Tutti noi
quando avevamo dai quattordici ai diciotto anni avevamo bisogno di
qualcosa che in qualche modo si contrapponesse a quello che ci dicevano
i genitori o i professori a scuola, è una cosa fisiologica.
Però con quanto è recentemente successo con
le “bestie di Satana” hanno tirato ancora in ballo la
questione dei messaggi subliminali che gruppi come i Beatles o i Led
Zeppelin avrebbero nascosto nei loro brani…
Guarda, io credo che questo sia il grande vantaggio del rock:
nel momento in cui il rock percorre vie diverse da quelle che un ragazzino
è costretto a percorrere dai genitori e dalla scuola, allora
diventa ancora più bello e si veste di un’aura ulteriore.
Ma questo succede anche con i cantautori, questi hanno cominciato
a non essere più di moda nel momento in cui i professori hanno
iniziato a far studiare testi ai loro alunni. Nel momento in cui io
ho incominciato a vedere che su qualche antologia, ovviamente in ottima
compagnia dei vari De André, De Gregori etc., “il Mare
d’Inverno” e “Il Portiere di Notte” è
chiaro che da un lato sono rimasto lusingato, ma dall’alto ho
cominciato a preoccuparmi, peché nel momento in cui le istituzioni
codificano il tuo esistere è chiaro che un ragazzino non si
scriverà più di nascosto sul suo diario le frasi di
uno che trova nell’antologia e quindi potresti diventare un
nemico, non è particolarmente positivo. E’ chiaro che
a scuola non si studieranno mai i testi di Ozzy Osbourne e questo
va a vantaggio di Ozzy.
Sei sempre stato animato dallo spirito del punk, un genere
rivoluzionario e ribelle, ma quanto è rimasto in Enrico oggi
di questo spirito?
Fondamentalmente nella voglia di non allinearsi e nel piacere
della provocazione, una certa sicurezza in se stessi e in qualche
modo il concetto di band. Dal punk sono uscite solo delle band e anche
i cantanti singoli venuti dal punk come Elvis Costello hanno ben presente
il concetto di band. Costello suona ancora oggi con alcuni musicisti
che sono con lui dal ’77. Quindi è evidente che non si
può scindere il concetto di punk dal concetto di band e io
ne solo l’esempio perché cerco di suonare sempre con
gli stessi musicisti, vado in giro in macchina con loro, dormo con
loro in albergo, quindi sono poco un “cantautore” in questo
senso.
Qualche anno fa il punk era tornato di moda con gruppi come
i Green Day o i Blink 182, ma non mi sembrava che avessere molto in
comune coi gruppi della fine degli anni settanta?
Avevano in comune la struttura delle canzoni, ad esempio
il fatto che ci fossero pochi assoli, che non ci fossero tastiere,
anche un certo gusto per le melodie semplici accompagnate da accordi
maggiori, tipo Ramones per intenderci, ma questo non succede solo
nel punk, è successo in molti altri generi. Abbiamo visto i
King of Convenience che assomigliano a Simon and Garfunkel, che bene
o male ne ricalcano certi stilemi. Oggi è molto difficile nella
musica che esca qualcuno che inventa qualcosa di sana pianta, sei
fai pezzi lunghi e articolati in qualche modo ti rifai al progressive,
se fai pezzi mozzafiato di due minuti con chitarra, basso e batteria
ti rifai al punk, se racconti delle storie hai bisogno di una musica
che ti riporta al mondo di Bob Dylan. E’ difficile inventare
una cosa da zero.
Delle formazioni che in questi anni mi sono sebrate vicine
allo spirito del punk, non tanto per la musica, ma per il modo di
porsi, sono gruppi tipo i Jane’s Addiction o i Rage Against
the Machine…
Devo dire che questi gruppi li conosco poco, quello che conosco
è tramite mio figlio. Sono degli esperimenti trasversali sicuramente
molto interessanti.
Quando hai iniziato a cantare i musicisti italiani erano idealmenti
divisi fra quelli “impegnati” e quelli cosiddetti “disimpegnati”,
cosa pensi di questa divisione e secondo te può essere ancora
attuale?
No, oggi non è più attuale, alla fine degli
anni settanta c’era un momento storico molto particolare, c’era
una spaccatura netta non solo di testi, ma musicale, da un lato c’erano
i gruppi molto romantici come gli Homo Sapiens, i Collage o cantautori
che miravano alla melodia, penso a Tozzi che ha fatto il giro del
mondo, ma penso anche a Pupo o a Toto Cotugno, il loro obiettivo era
la melodia italiana da esportazione. Per contro c’erano i cantautori
che sicuramente erano meno propensi a scrivere delle canzoni nel senso
tradizionale del termine, ma erano desiderosi di raccontare delle
storie non solo d’amore. Oggi è tutto talmente misto…
puoi sentire il cantautore ex impegnato che scrive una canzone d’amore
e puoi sentire Orietta Berti che scrive un pezzo sui russi e sugli
americani.
Però stiamo vivendo una nuova contrapposizione fra
destra e sinistra…
Non mi sembra a livello musicale, trovo che tra i ragazzi
questo non ci sia. Si sentono poco coinvolti. Quando io andavo a scuola
all’età di quindici anni Capanna ne aveva venti e in
qualche modo la contestazione era fatta da persone quasi della stessa
generazione delle persone che l’ascoltavano e che la vivevano.
Oggi comunque Bertinotti ha sessant’anni e un ragazzino quindicenne
non ha voglia di ascoltare un sessantenne, neanche se è un
rivoluzionario o si propone come tale.
Ci sono artisti che coltivano una profonda cultura musicale,
mentre ce ne sono altri che dichiarano di non avere il tempo per ascoltare
altra musica, tu a quale categoria appartieni?
Appartengo alla prima categoria diciamo fino all’80.
Fino a quel periodo ho ascoltato praticamente di tutto e posso definirmi
un innamorato e un esperto. Successivamente, non so se è perché
da quando ho cominciato a farla, la musica, ho iniziato ad ascoltarla
meno, ma a me sembra che dopo il punk non ci sia stato nulla di così
deflagrante come furono ad esempio i Beatles, i Led Zeppelin, i Jethro
Tull, i Deep Purple, Lou Reed, David Bowie, Iggy Pop, i Sex Pistols
eccetera… Non mi sembra che dopo sia successo qualcosa. Però
temo sempre di fare la figura dell’adulto che dice “ai
miei tempi era meglio”, quindi non so se ho ragione.
Allora proviamo a fare un po’ una carellata di gruppi
storici… Una volta abbiamo parlato dei Blue Oyster Cult e mi
avevi raccontato un aneddoto…
Nel ’76 erano anni in cui gli scontri che c’erano
in Italia impedivano i concerti e gli artisti stranieri evitavano
il nostro paese, quindi si andava o in Svizzera coi pulman dove andai
a vedere i Queen, gli Uriah Heep e parecchi altri musicisti, oppure
si andava in giro romanticamente con gli amici e io andai ad Amsterdam
in un posto che credo ci sia ancora che si chiama il Paradiso dove
andai a vedere appunto i Blue Oyster Cult. Al di la del fatto che
il concerto me lo ricordo come bellissimo, ma bisogna aggiungere il
romanticismo dell’idea di partire con gli amici per fare i primi
viaggi e arrivare in Olanda, questo mondo che per noi era mitico per
andare a vedere i Blue Oyster Cult.
I Black Sabbath, che se non sbaglio sono il gruppo preferito
di tuo figlio?
Si, sono uno dei suoi gruppi preferiti, soprattutto per l’affetto
che ha per Ozzy Osbourne. Temo che per tutti i nomi che mi dirai dovrò
rispondere che furono degli innovatori, comunque i Black Sabbath avevano
una struttura sonora molto particolare e poi un front man assolutamente
d’eccezione.
Gli Stooges, sono rimasto sorpreso che in Punk Prima di Te
tu non abbia messo una loro cover…
Beh, ne mancano tante, io avrei voluto mettere anche i New
York Dolls, però c’erano anche pezzi che si prestavano
di più alla mia voce, David Johansen dei New York Dolls era
molto sguaiato e non so se li avrei cantati nella maniera giusta.
Gli Stooges erano proprio il frutto di un movimento che in qualche
modo rispondeva all’America hippie, quella dei figli dei fiori
di San Francisco, diciamo più freakettoni e gli Stooges erano
la disperata risposta industriale a quel mondo. Sono tra i padri del
punk insieme con gli MC5 e soprattutto i New York Dolls, che facevano
già pezzi con tutti gli stilemi del punk.
Bauhaus?
Li conosco meno, li ho visti una volta dal vivo ed erano
molto interessanti, ma secondo me non avevano delle canzoni che li
rendessero duraturi nel tempo. Non mi ricordo una canzone dei Bauhaus
anche se erano un esperimento assolutamente interessante.
Talking Heads?
Colti, un’altra cosa ancora, furono i primi a capire
che ballare non era per forza il sintomo di qualcosa di disdicevole.
La grande sorpresa fu che si poteva andare in discoteca a ballare
senza dover per forza sentire Sylvester o Donna Summer, quindi furono
assolutamente liberatori, al di la del fatto che David Byrne è
ancora oggi molto creativo. La grande novità divertente fu
che nacquero delle discoteche dove si poteva ballare con il punk o
con qualcosa che arrivasse dal punk.
Brian Eno?
Io l’ho amato moltissimo perché prima di tutto
era quello che sbaragliava il mazzo. Nei Roxy Music fu fondamentale,
dopo la sua uscita il gruppo ha perso la sua forza rivoluzionaria.
I primi due album dei Roxy Music erano assolutamente strani e inconsueti.
Crearono un genere, credo proprio grazie a Brian Eno, perché
poi dopo la sua uscita si allinearono anche loro. Poi Eno ha fatto
talmente tante cose…
Mi ricordo anche un aneddoto sui Big Country…
Devo dire che non ho la capacità industriale di intuire
i successi planetari. Quando uscirono i Big Country scommettevo su
di loro invece che sugli U2, perché mi piacevano molto di più.
C’è anche un altro gruppo su cui scommettevo molto che
si chiamava Atzec Camera e questo testimonia il fatto che non potrei
fare l’amministratore delegato di una multinazionale discografica.
Un mio amico marchigiano mi ha raccontato che da ragazzo giocava
a pallone con te a Marotta e che in quel periodo ascoltavi solo i
Police…
Col senno di poi devo dire che se devo ascoltare qualcosa
che tendeva la mano al reggae oggi preferisco i Clash. Però
forse quelli della mia generazione rimproverano un po’ ai Police
di aver avuto così tanto successo, mi ricordo che c’era
un po’ di irritazione nel vedere le ragazzine con la foto di
Sting sul diario con scritto sotto “quanto sei bello!”.
Forse Sting meritava di meglio o forse era proprio quello che voleva.
Sai che i Queen hanno assoldato Paul Rodgers alla voce, cosa
ne pensi di questo matrimonio?
E’ un ottimo matrimonio, certo non sarà facile.
Rodgers ha una voce bellissima, me lo ricordo coi Free, coi Bad Company
e non credo sarà facile per lui fare il cantante dei Queen,
perché ha una voce molto diversa. Da un lato mi fa pensare
che i Queen vogliano fare delle cose nuove, se avessero solo voluto
andare a fare concerti per rifare i pezzi vecchi avrebbero preso George
Michael, che obbiettivamente, quando cantò a Wembley era quello
che vocalmente era più vicino alla vocalità di Mercury.
I Rolling Stones stanno per tornare in Italia e sono ormai
cinquant’anni che fanno sempre le stesse cose…
Beh, innanzi tutto mi sono molto simpatici, li trovo meno
creativi dei Beatles, però devo dire che mi fa talmente piacere
e mi incoraggia il pensiero che stiano facendo ancora le stesse cose,
è naturale che a quarantotto anni ogni tanto mi chieda che
senso abbia andare ancora in giro a cantare “LSD Flash”,
ecco vedere che i Rolling Stones sono ancora vivi e vegeti e che Mick
Jagger ci canterà ancora “It’s only rock ‘n’
roll, but I like it”, visto dagli occhi di un musicista che
si sente ancora un ragazzino, ma che ragazzino non lo è più
è molto incoraggiante.
Bono degli U2 è stato nominato per il nobel alla pace,
cosa pensi del suo impegno, è giusto che la musica si occupi
di queste cose?
Mi sembra che in questi anni quelli che hanno avuto le mani
più pulite siano stati proprio i musicisti. In un momento in
cui i politici hanno tradito, i giornali hanno tradito, la televisione
ha tradito, quelli che in qualche modo hanno fatto le cose con un
po’ più di buona fede sono stati proprio i musicisti.
E’ chiaro che Bob Ghedolf ha promosso anche la sua immagine
e che oggi ci ricordiamo più di Live Aid che non dei Boomtown
Rats, però se tutto questo poi è servito a raccogliere
soldi e a sensibilizzare le persone ben venga.
Se tu dovessi spiegare ad un teenager di oggi l’importanza
musicale dei Beatles cosa gli diresti?
Gli direi che in qualche modo tutto quello che è arrivato
dopo deve qualcosa ai Beatles. Dal punto di vista armonico, dal punto
di vista degli arrangiamenti e poi gli farei ascoltare quello che
c’era prima dei Beatles, in effetti sono stati degli sparti
acque, anche se non erano i soli…
I Kinks?
Esatto, stavo proprio arrivando a loro che in qualche modo
meriterebbero più considerazione nelle antologie, anche se
è vero che senza quel periodo e senza i Beatles tutta la musica
che è seguita in qualche modo sarebbe stata diversa.
C’è un terreno musicale in cui non ti sei ancora
spinto e che ti piacerebbe affrontare?
Le colonne sonore, mi piacerebbe lavorare almeno una volta
nella vita per il cinema. Soprattutto in un periodo dove il singolo
deve durare due minuti e mezzo, le radio ti impongono una serie di
limiti, non che io mi faccia condizionare, però è pesante
sapere che in qualche modo la mia musica dovrà confrontarsi
con la sintesi in qualsiasi momento. Aver la possibilità di
lavorare su un film che dura un’ora e mezza mi farebbe bene.
C’è un genere in particolare che preferiresti?
Magari non Vacanze sul Nilo, nel momento in cui un regista
dovesse chiedere una colonna sonora a Ruggeri, probabilmente vuol
dire che ci devono essere delle sintonie.
So che stai scrivendo del materiale nuovo, puoi fare qualche
anticipazione?
E’ difficile perché il mio modo di lavorare
è così particolare, io scrivo tante canzoni e poi quando
sono in studio mano a mano incomincio a scegliere, per cui in realtà
non sono in grado di prevedere che strada prenderà l’album.
Finiranno nell’album le canzoni che troverò più
belle e più rappresentative, potrebbero essere anche dodici
ballate o dodici pezzi svelti, che ne so?
Qual è la tua sfida più grande per il prossimo
futuro?
Professionalmente la sfida oggi è rimanere. Oggi il
mondo cambia sempre più velocemente e il fatto di fare un concerto
e vedere un quindicenne che canta una canzone che è stata scritta
quando lui aveva meno dieci anni è molto gratificante. Poter
continuare a fare le cose che faccio per me è già una
grande sfida.
GB
Recensioni: Punk Prima di Te; All
In; La Ruota; Frankenstein
Live Reportage: 2004; 2009
Altre interviste: 2004; 2009
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