Devin Townsend, il metallaro genialoide, il Frank Zappa del metal,
il folle visionario, un artista che ci ha sorpreso disco dopo disco
e oggi è qui con ben due titoli nuovi di zecca, che chiudono
la quadrilogia iniziata con Ki e continuata con Addicted. In vent’anni
circa di carriera musicale, Devin ha fatto un po’ di tutto,
dall’ambient al metal più estremo con tutto quello che
ci stà in mezzo, anche se è sempre stato un artista
borderline, che non ha mai veramente fatto il grande salto. La vita
di Townsend è stata segnata da eccessi e abusi di sostanze
stupefacenti e alcool, ma da circa quattro anni ha deciso di cambiare
vita e ha realizzato questi quattro dischi come inizio di un nuovo
cammino anche e soprattutto artistico. Siccome vi abbiamo già
parlato dei due capitoli precedenti, passiamo subito all’analisi
di questi due nuovi lavori.
Deconstruction è uno dei dischi più violenti e metal
di Devin, l’avvio è piuttosto prog, con delle ritmiche
complesse e innovative, atmosfere vellutate e quasi elettroniche,
ma poi a metà del brano esplode un cantato rabbioso come pochi
e tutto diventa sulfureo e infuocato, musica decisamente apocalittica,
con ritmiche complesse e un tessuto musicale che sfiora il rumore
puro. Una simile violenza lascia disorientati, ma è solo l’inizio.
“Stand” parte con un giro tribale e un forte senso drammatico,
non privo di una certa efficacia, ma anche in questo caso ad un certo
punto parte una virata brusca verso il metal estremo che crea una
cacofonia esagerata. Certi passaggi isolati dal contesto non sono
male, molto teatrali e ricchi di enfasi, ma il tutto ha un sapore
forte, anche troppo, musica da Dies Irae. Si continua sulla stessa
linea con “Juular”, visionaria e ricca, che via via scivola
in suoni caotici e sempre più folli, fino ad un finale inascoltabile.
Per me brani come “Planet of the Apes” sono del tutto
inascoltabili, l’Apocalisse diventa reale e palpabile, un delirio
sonoro che è più incubo che altro. Fortunatamente ogni
tanto non mancano momenti più rilassati e allora il nostro
tocca anche dei grandi vertici espressivi, ma il bilancio pesa gravemente
sugli aspetti che abbiamo sottolineato.
Ghost è esattamente il contrario del disco precedente, in questo
disco Devin si getta a capofitto nell’ambient più rilassante
e sdolcinato, un paradiso dal sapore ambiguo. L’inizio con “Fly”
è anche abbastanza suggestivo, tra sonorità che rimandano
agli indiani d’America e alle ballate folk si respira un’aria
sognante. Brano minimale con qualche venatura prog. “Heart Baby”
è ancora più eterea e spirituale, i suoni si fanno più
delicati e sospirati, una contrapposizione totale col disco precedente.
“Feather” è un brano molto lungo e strutturato,
quello che ha le melodie che mi sono piaciute di più, anche
se alla lunga è un po’ prolisso. Da questo punto il disco
prende una strada senza ritorno e inizia a diventare di una noia assoluta,
melodie stemperate e giri ipnotici si susseguono senza mai catturare
la mia attenzione, musica da evitare in particolare in auto, pericolo
colpi di sonno. Lo stesso Devin dice che questa non è musica
per tutti e sono pienamente d’accordo con lui.
Insomma, ne nei momenti più aggressivi, ne in quelli più
pacati Townsend è riuscito a convincermi. Sicuramente è
un artista che stimo, ma per adesso quello che ho ascoltato mi ha
lasciato piuttosto perplesso. Idee buone ce ne sono, ma spesso vengono
sommerse da altre poco comprensibili, come un bella fotografia nascosta
da incrostazioni che la sporcano e la rendono poco leggibile. Ho l’impressione
che l’estro di Devin abbia bisogno di essere in qualche modo
frenato e contenuto, sembra un paradosso, ma forse solo così
la sua genialità troverà una forma convincente. GB
Altre recensioni: Synchestra; Ziltoid
the Omniscent; Ki;
Addicted; Epicloud;
The Retinal Circus
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