La carriera solista di Hackett, che sembrava essersi appannata negli
anni ’90, pare che oggi sia tornata in buona salute, ecco che
lo ritroviamo infatti con un nuovo album a pochi anni dall’uscita
di Dark Town, il disco che a mio parere lo ha rilanciato, e dopo il
quale sono usciti altri due lavori.
In realtà Steve non ha mai smesso di sperimentare, questo è
stato il motivo che lo ha spinto alla fine degli anni ’70 ad
uscire dai Genesis, ed è tutt’oggi il motore che lo spinge
a fare ancora così tanti dischi sempre all’insegna di
soluzioni ricercate e mai banali.
L’apertura è affidata ad un pezzo scomodo dal titolo
“A Dark Night in Toytown” che presenta un ritmo serrante
e un’atmosfera urbana dal sapore cyberpunk. “Waters of
the Wild” cambia le carte in tavola e gioca con atmosfere e
suoni indiani vagamente psichedelici. Con “Set Your Compass”
si fa un altro salto culturale per approdare al folk inglese, un rimescolamento
di stili e tradizioni artistiche che creano un unico sentimento. Ma
anche la zappiana “Down Street” fa la sua parte per confondere
l’ascoltatore impreparato. “A Girl Called Linda”
ricorda certe atmosfere pop degli anni sessanta. “To A Close”
invece ricorda dei canti medievali con delle armonie molto delicate.
“Ego and Id” propone delle atmosfere torride e acide e
la chitarra di Hackett si fa aggressiva e sferza l’ascoltatore.
“Man in the Long Black Coat” è una cover abbastanza
riconoscibile di Dylan, col suo stile blues disperato e un tocco di
folk irlandese. “Wolfwork” a mio parere è uno degli
episodi migliori, perché mescola tentazioni neoclassiche con
un prog sperimentale abbastanza intenso e teatrale. Invece “She
Moves in Memories” è puramente neo classica forse un
po’ troppo prevedibile. Un brano notturno e trascurabile precede
la conclusiva e straniante “Howl” che lascia un punto
interrogativo sull’intero lavoro.
Steve si è cimentato con la musica neo classica, col jazz,
col blues, con alcuni accenni di world music, ma resta fondamentalmente
un musicista prog nel vero senso del termine. Wild Orchids conferma
questa sua natura proprio a causa degli stili diversi coi quali si
è cimentato. Il rischio però è di confondere
un po’ chi lo ascolta, perché tutto sommato all’album
manca una certa unità compositiva, a tratti risulta troppo
frammentario e slegato. Ci sono delle idee ottime prese da sole, nell’insieme
si perdono un po’, per questo è un disco che va ascoltato
molte volte prima che possa entrare nel cuore. GB
Altre recensioni: To Watch the Storms;
Metamorpheus; Out
Of The Tunnel’s Mouth;
Genesis Revisited Live; The
Tokyo Tapes; Genesis
Revisited: Live 2
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