Brilla alta la stella di Steven Wilson, l’instancabile alfiere
del prog contemporaneo che a ogni colpo riesce a superare se stesso
senza ricopiarsi mai. Raffinati e complessi i suoi lavori, tutti oscuri,
di sapore gotico. Hand.Cannot.Erase. è il titolo del suo quarto
lavoro solista. L’immagine di copertina è inquietante,
questo viso di donna in grigio sporcato da spatolate di indaco e carminio.
Per la realizzazione del disco, così com’è stato
nei due precedenti, Steven si è avvalso della collaborazione
di cinque pezzi da novanta, ormai la band è collaudatissima.
Ritroviamo infatti Nick Beggs al basso, Guthrie Govan alla chitarra,
Adam Holzman alle tastiere, Marco Minnemann alla batteria e Theo Travis
ai fiati. In aggiunta stavolta figura nel gruppo anche una donna,
la pop singer israeliana Nina Tayeb. L’album ha la struttura
del concept e se da un lato si smorzano un poco gli accenti dark,
dall’altro si percepisce più forte la vena introspettiva
che già faceva capolino in The Raven That Refused To Sing.
Steven si è ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto,
risalente al 2001, la storia di una giovane donna inglese, Joyce Vincent,
morta nel suo appartamento di Londra senza che nessuno, nemmeno la
sua famiglia o i suoi amici, si fosse accorto della sua assenza per
ben tre anni.
L’approccio alla composizione è meno jazzistico che in
The Raven, infatti sono relativamente poche le parti scritte per il
sax, ma Travis, pur suonando di meno, lascia comunque il segno. È
inoltre meno prog del precedente, benché non manchino passaggi
destinati a far saltare per aria gli amanti del genere. Decisamente
generoso l’uso dell’elettronica, qui più che in
passato, almeno per quanto riguarda il Wilson “solista”.
In definitiva il disco può ancora intendersi un’opera
prog, ma i mezzi usati per realizzarlo sono più moderni e in
più di un’occasione il gruppo ha strizzato l’occhio
al pop. Commistioni del genere, quando sono ben calibrate come in
questo caso, rendono il sound d’insieme molto ricco e il nostro
al riguardo si è sempre dimostrato un vero asso.
Le tracce contenute sono undici. In apertura troviamo “First
Regret”, una breve introduzione costruita su un riff di piano
che apre la via, senza stacco, alla traccia successiva, “3 Years
Older”. Questo è il primo assaggio prog del lavoro. Il
sound è poderoso, a tratti aggressivo, e i cambi di ritmo si
susseguono come da migliore tradizione. Beggs e Minnemann in grande
spolvero, insieme fanno faville. Nella parte centrale, dove inizia
il cantato di Steven, il brano tira il fiato e prende tinte floydiane.
Stupendi i passaggi di coro sullo sfondo, il richiamo al progressive
classico è forte, un poco mi ricorda le parti corali in Cold
Rain di Crosby, Stills & Nash o quelle, magnifiche, in Nothing
At All dei Gentle Giant. Diversi gli angoli di alta scuola via via
che il pezzo matura, i musicisti sono dei mostri, nulla da dire, l’affiatamento
è notevole, non c’è una nota fuori posto. E il
pezzo è obiettivamente molto bello. Segue la title track dell’album,
“Hand Cannot Erase”, brano pop dalla struttura semplice
ma efficace, che per questo risulta il più immediato tra tutti.
Infatti una volta entrato in testa non esce più. Il successivo
è “Perfect Life”. Gran bel pezzo raffinato dal
potere ipnotico, dove risuonano inaspettati gli echi del trip hop,
e non a caso viene da pensare ai Portishead o agli Archive. L’intro
è un loop di batteria su tappeto elettronico ed è per
lo più narrato. La voce di Nina gronda desolazione come se
piovesse, e il testo è sofferto da spaccare il cuore. Incantevole
il passaggio verso la fine, qui a cantare è Steven, e non c’è
che un’unica frase, We have got the perfect life, ripetuta più
e più volte a costruire un crescendo che fila come una macchina
da guerra, spiazzante nella sua ricercata semplicità. Davvero
bello. “Routine” è la quinta traccia e con questa
torniamo a parlare di progressive. Qui Nina e Steven si alternano
al cantato e il brano si spiega mutando aspetto di continuo. La strumentazione
è ora delicata ora vigorosa, e il tutto ha un incedere epico,
sembrano diverse canzoni in una. Nel mezzo un breve interludio cantato
da un bambino, piccola chicca da progghettari che aggiunge suggestione
all’insieme. A seguire le tracce “Home Invasion”
e “Regret #9”, fuse assieme in un altro lungo brano strumentale
dal sound squisitamente heavy prog. L’attacco è poderoso,
ricorda certi passaggi “cattivi” dell’album precedente,
ma anche i Porcupine Tree dei primordi, ed è forse qui che
i musicisti danno il massimo. Stupendi gli assoli di Holzman e Govan
in “Regret #9”. Se amate il rock, occhio al brivido, stavolta
viene di sicuro. Con “Transciense” i toni si fanno più
dolci. Il brano richiama le atmosfere soffici ed intimiste di “In
Absentia” (che Steven si stia ricordando dei Porcospini?) e
probabilmente è proprio in questa semplicità che sta
la sua bellezza. A seguire è “Ancestral”, la suite
dell’album, un brano potente e oscuro, di costruzione seriamente
progressive. Trascinanti certe tirate verso la seconda parte del pezzo,
questo è metallo puro, e il finale è da cardiopalma.
Per finire “Happy Returns/Ascendant”, una ballad dolce
che a dispetto del dramma di cui parla chiude splendidamente l’album
con accenti decisamente meno oscuri che in precedenza, quasi a lasciare
una porticina aperta alla speranza.
Per apprezzare in pieno la bellezza di questo album occorre ascoltarlo
più volte, è un lavoro innegabilmente complesso, diverso
da ogni altro Wilson abbia creato finora. Di sicuro è quello
che ha la personalità più definita, un vero caleidoscopio
di stili fatto in tutta libertà per puro amore della musica.
Per questo va assaporato come si gustano le cose buone, ad occhi chiusi.
Capolavoro. LM
--
Se ne dicono troppe su Steven Wilson, di sicuro non è un personaggio
che lascia gli ascoltatori indifferenti. Chi lo osanna ad ultimo genio
moderno e chi invece grida al flop e alla sua presunta furbizia del
mestiere. E’ sicuramente molto prolifico, questo è un
dato che accomuna tutti i critici, infatti dal suo progetto madre,
i Porcupine Tree (al momento congelato) ai No Man e ai Blackfield
(anche qui al momento congelato), i sui fans hanno di che mettere
le mani al portafoglio.
Se ne dicono troppe su Steven Wilson, come se miscelare sonorità
King Crimson con Pink Floyd e del Metal oscuro alla Opeth fosse un
reato. Sporcare il Prog con il Metal è un sacrilegio per molti
ascoltatori. E poi come si permette di mutare disco dopo disco…
chi si crede di essere!
Se ne dicono troppe su Steven Wilson, che è sempre troppo malinconico,
oscuro, a volte macabro, ma che è malato? In “Hand.Cannot.Erase”
non ripete il canovaccio usato per l’ottimo predecessore “The
Raven That Refused To Sing (And Other Stories)” disco che ha
messo d’accordo molti “progghettari”, eppure sarebbe
stato facile ripetere tale grandiosità, la formula il ragazzo
la conosce bene, non dicevate che era un furbo? Lui no, lascia il
sentiero per addentrarsi in un contesto più semplice, apparentemente
banale, rivolto maggiormente alla formula canzone. Non più
lunghe suite, bensì quadri sonori a se stanti che assieme confluiscono
in un contesto che parla della morte di una ragazza rinvenuta soltanto
tre anni dopo il decesso. Questo fatto ha colpito molto l’autore,
tanto da trarne una sorta di concept, cosa rara per la sua discografia.
Chi si attendeva un Wilson roboante e magniloquente, come ascoltato
l’anno scorso, qui resta un attimo interdetto, le canzoni sono
semplici, si grida al tradimento ascoltando l’elettronica ed
il minimalismo di “Perfect Life”.
Se ne dicono tante su Steven Wilson, che è un noioso flop,
ma allora mi sorge un dubbio… cosa ci fanno con lui artisti
del calibro di Guthrie Govan (chitarra), Nick Beggs (basso), Marco
Minnemann (batteria), Adam Holzman (tastiere), Theo Travis (sax, flauto)
e Ninet Tayeb (voce)? Amano annoiarsi suonando? Eppure Minnemann anche
qui non sembra neppure umano, ma un polipo. Molte di queste affermazioni
non le ho inventate io, le ho copiate pari pari da internet.
E allora, visto che se ne dicono tante, dico anche io la mia, “Hand.Cannot.Erase.”
è un disco di passaggio nella vita musicale dell’artista,
in esso sembrano convogliati i progetti Porcupine Tree, No Man, Blackfield,
miscelati e digeriti, una sorta di embrione in fase di sviluppo, sembrano
più distanti “Insurgentes” e anche “Grace
For Drowning”…mangiati e digeriti. L’artista non
vuole stupire, a mio modo di vedere è soltanto se stesso, come
è oggi, uno dei pochi che fa musica per il proprio piacere,
altrimenti fosse il contrario avrebbe continuato a sfornare dischi
in stile Porcupine Tree, viste le sue vendite.
Ho scritto questa recensione molto tempo dopo aver ascoltato per l’ennesima
volta il disco e ho voluto anche la versione in doppio lp per goderne
a meglio le sonorità, ed ho fatto questo per non lasciarmi
scappare facili commenti entusiastici, ma per commentare a mente fredda
e lucida. La puntina sta distruggendo i solchi di “Regret#9”,
già questo brano da solo vale l’acquisto del disco! No,
non grido al capolavoro e forse non lo dirò mai neppure negli
anni a venire e dopo altri numerosi ascolti, di certo ci è
andato molto vicino e in silenzio subisco questo suo modo di concepire
la musica.
Lo avessi di fronte gli direi soltanto una cosa: “Avanti così,
la storia ti segue, come ti seguono i migliaia di gruppi al mondo
che ti stanno facendo il verso”. MS
Altre recensioni: Insurgentes; Grace
For Drowning; The Raven That Refused
to Sing; 4 1/2;
To the Bone; The
Future Bites; The Harmony Codex
Interviste: 2013;
2015
Live report: 2013; Pistoia
2013
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