| Mentre c’è chi ancora accende lumini davanti ai dischi 
            dei Porcupine Tree e non riesce ad accettare la svolta artistica di 
            Wilson, Steven prosegue per la sua strada tesa ad esplorare ogni tipo 
            di musica, ma quello che non dovrebbe sorprendere non è solo 
            la libertà di questo poliedrico artista, la vera essenza della 
            sua produzione è che c’è un filo rosso che lega 
            tutto quello che ha fatto, da prima di formare i Porcospini fino ad 
            oggi. Già negli anni ’80 aveva esplorato il pop elettronico 
            e se alcuni brani di questo nuovo album fossero stati inseriti in 
            una delle sue produzioni precedenti, magari sostituendo alcune parti 
            elettroniche con strumenti tradizionali, nessuno si sarebbe “stracciato 
            le vesti”. Una ballata come “12 Things I Forgot” 
            poteva tranquillamente figurare in ogni suo disco. Negli anni ’70 
            tutte le band mescolavano i generi e nessuno si scandalizzava, ad 
            esempio nessuno si è mai scagliato contro “So Tired” 
            o “Goodby to Romance” di Ozzy, eppure erano molto distanti 
            dalla sua produzione più apprezzata.
 
 Questo nuovo disco va accolto senza preconcetti di nessun tipo, non 
            è facile quando uno è stato osannato forse anche più 
            dei reali meriti, Steven è prima di tutto un uomo e già 
            ha fatto molto più della media alta della nostra specie. L’approccio 
            giusto a questa sua nuova opera è quella di volerla semplicemente 
            ascoltare, poi se uno non tollera un approccio pop “facile” 
            è meglio che ascolti altro. “Self” non sarà 
            originale, mi ha ricordato anche certe cose degli U2 anni ’90, 
            ma è anche Wilson al 100% e devo dire che non mi dispiace affatto. 
            La già citata “12 Things…” è una discreta 
            ballata, con una spruzzata di psichedelia che la rende quasi settantiana. 
            Poi c’è l’urbana “Eminet Sleaze”, dove 
            compare una chitarra di crimsoniana memoria. “Man of the People” 
            è molto minimale, ridotta quasi all’essenza. “Personal 
            Shopper” è il brano più conosciuto del disco, 
            sicuramente il singolo perfetto, il giusto piglio per piacere ad un 
            vasto pubblico, non è memorabile, ma ti entra subito in testa 
            e il testo ironizza anche col progetto sottostante. “Follower” 
            gioca ancora a mescolare un’elettronica non troppo impegnata 
            con suoni più sperimentali, certo forse un album tutto su queste 
            corde sarebbe stato più intrigante, ma non era nelle sue intenzioni. 
            In chiusura la l’atmosferica “Count of Unease”, 
            forse troppo minimale, ma anche adatta al tipo di disco, un commiato 
            a voce bassa.
 
 Ottima la produzione, ottimi i suoni, alcune melodie veramente azzeccate. 
            Un disco diverso dai precedenti eppure in linea. Certo non la linea 
            che avrebbero voluto i suoi fans più intransigenti, ma una 
            che quelli più aperti possono veramente apprezzare. The Future 
            Bites ed è ancora tutto da scrivere. GB
 
 Altre recensioni: Insurgentes; Grace 
            For Drowning; The Raven That Refused 
            to Sing;
 Hand. Cannot. Erase.;  
            4 1/2; To the Bone; The 
            Harmony Codex
 
 Interviste: 2013; 2015
 
 Live report: 2013; Pistoia 
            2013
 
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 Artisti correlati: Porcupine Tree; No-Man; Blackfield
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