The
BLUE ÖYSTER
CULT
Di Giancarlo Bolther
Premessa
Questo è un articolo che avevo nel cuore da tanto tempo, forse
addirittura da quando ho iniziato a scrivere di musica, non è
un caso se la mia prima recensione è stata proprio quella dell’album
Heaven Forbid e che la mia prima intervista è stata quella
a Donald “Buck Dharma” Roeser, lo storico chitarrista
del gruppo newyorkese. Per quanto mi riguarda, la mia, è stata
una partenza “alla grande”, proprio con la band che amo
di più. Ma forse è proprio per questo motivo che sono
sempre stato titubante nel mettere mano ad un articolo retrospettivo
su questi artisti. Ora che hanno annunciato il ritorno in Italia (unico
concerto fissato per il 04 giugno a Roma, appuntamento da non perdere!!!),
dopo ben ventidue anni dallo storico tour che li aveva portati per
la prima volta a calpestare il sacro suolo del nostro paese, non potevo
non cogliere quest’occasione per salutare questo evento nel
migliore dei modi.
I Blue Öyster Cult non sono una band come le altre, la loro storia
è quanto mai complessa e ricca di fatti e aneddoti, tanti che
ci vorrebbe un libro per ricordare almeno i più significativi,
per cui in questo articolo, che non ha grosse pretese, cercheremo
di soffermarci come minimo sugli aspetti legati alla musica e ai dischi
del gruppo, mi scuserete, ma la cosa assumerebbe davvero delle proporzioni
poco consone ad un articolo in internet.
La genesi del culto
Il primo nucleo nasce dall’incontro di Albert Bouchard con Donald
Roeser nel ’65 al Clarkson College of Technology in Potsdam,
nell’area di New York. Inutile ricordare che siamo in un periodo
di grande fermento culturale e che la Grande Mela è uno dei
cuori pulsanti della rivoluzione artistica in atto. A New York ci
sono personalità fondamentali per tutta la pop art (dalla pittura
alla letteratura) e questa ricchezza viene respirata dai giovani dell’epoca.
Non è un caso se i gruppi newyorkesi hanno sempre avuto un
sound molto diverso dai classici gruppi americani, anzi, spesso di
“americano” in senso classico hanno ben poco o niente.
Infatti fin dalle prime formazioni i due amici iniziano a coverizzare
proprio i gruppi del brit pop.
Fondamentale è anche l’incontro con due dei più
importanti critici musicali del periodo: Sandy Pearlman e Richard
Meltzer. Per intenderci Pearlman è stato il primo ad associare
il termine “Heavy Metal” alla musica, dice di averlo estrapolato
dalla lettura di una rivista scientifica, ma è stato utilizzato
anche dal famoso autore William Burroughs (quello di Tarzan, uno degli
autori più influenti sulla rivoluzione culturale degli anni
’60) nel celebre “Naked Lunch”. L’utilizzo
del neologismo “Heavy Metal” nel testo di “Born
To Be Wild” degli Steppenwolf è postumo. Questi due critici
e amici prendono molto a cuore il destino del gruppo e lo accompagneranno
nelle fasi più importanti sostenendoli e dando loro quella
benzina che li ha spinti a dovere.
Il primo nome assunto dalla band è stato Soft White Underbelly
(estrapolato da Pearlman da un discorso di Chrchill sull’Italia)
e Sandy fece da manager al gruppo, garantendo subito una certa notorietà.
Come cantante c’era Les Braunstein, con una voce quasi identica
a quella del mitico Jim Morisson. In quel periodo il gruppo era dedito
ad un sound molto sixties e blues, che guardava in parte ai seminali
Steppenwolf, ai Doors, ai Jefferson Airplane e in parte alle visioni
lisergiche dei Grateful Dead, con delle melodie vocali debitrici anche
dell’eredità dei Beatles (una costante per tutti i gruppi
dell’epoca), con un piglio tendente ad un sound abbastanza duro,
basato su pochi accordi e che è stato l’embrione del
rovente hard rock proposto in seguito nei ‘70. Nel frattempo
il gruppo continua una intensa attività live nei campus universitari.
Il gruppo ha sempre fatto tanti concerti fin dai tempi del college,
portando come bandiera una carica live devastante.
Viene registrato un album per la storica Elektra (la stessa dei Doors
per intenderci), il disco però resta sugli scaffali dimenticato
per decenni, ne giravano delle copie pirata su nastro fra i patiti
più sfegatati. Il disco è bello, il sound è fresco
e graffiante, ma si tratta di un prodotto in linea con le uscite del
periodo, del resto i nostri sono ancora molto giovani.
Il gruppo non si arrende e ci riprova come Stalk Forrest Group e con
un nuovo cantante, Eric Bloom prende il posto di Braunstein e da una
nuova spinta al sound del gruppo, ma l’esito è ancora
lo stesso, c’è un altro album che non vede la luce. L’unica
uscita è un rarissimo 45 giri, riproposto in seguito su vari
storici Bootlegs (come Fantasy Distillation of Reality e Violences).
Poi, per fortuna, la Rhino qualche anno fa ha finalmente stampato
il disco su cd in una edizione molto bella e curata di cui trovate
qui la recensione.
Siamo al ’71, nuovo nome e un sound più fresco che abbraccia
le nuove tendenze sonore che arrivano dall’altra parte dell’Oceano,
con Led Zeppelin e Black Sabbath in testa. La leggenda vuole che a
prendere in carico il ruolo di singer della band dovesse essere la
poetessa Patty Smith, che infatti debuttò come cantante proprio
sul fortunato Agent of Fortune, ma poi le cose andarono come sapete
e si perse l’occasione di avere una delle band più importanti
ed influenti della storia del rock. È nato il Culto dell’Ostrica
Blu!
Discografia commentata
Blue Öyster Cult (Columbia 1972)
Il primo album omonimo esce nel ’72, in deciso ritardo rispetto
alle uscite dei gruppi coevi, ma si fa subito notare per la presenza
di una delle copertine più misteriose di sempre e per un sound
davvero originale. Ci sono ancora sonorità sixties, che trapelano
dalle trame del disco, ma queste sono proposte in un contesto hard
rock decisamente innovativo, evidente fin dall’iniziale “Trasmaniacon
MC”, un brano spiritato con un solo di chitarra memorabile.
Altro brano storico e futuro cavallo di battaglia della band è
“Cities on Flame With Rock And Roll”, che si rifà
dichiaratamente a “The Wizard” dei Black Sabbath. I testi
fuggono dai classici cliché di sesso e droga, e si rivolgono
a tematiche legate alla letteratura sci-fi e horror. Altro elemento
che ha distinto da subito la band sono state le esibizioni. Questo
disco non è ancora un capolavoro, ma contiene già tutti
gli elementi che renderanno unici i Blue Öyster Cult. 7/10
Tyranny and Mutation (Columbia 1973)
L’anno successivo esce il sequel, la copertina ricalca la grafica
del primo disco, ma in un anno la band ha fatto un salto di qualità
impressionante e il sound del disco è esplosivo, i riffs di
chitarra si fanno sulfurei e irresistibili. Il disco apre con l’abrasiva
“The Red and The Black” un vortice sonoro che non ha rivali,
una solida base blues è il pretesto per un hard rock sulfureo
a tinte progressive di assoluta originalità, l'album più
dark della band. Il nuovo modo di concepire il blues emerge prepotente
anche dalla successiva “O.D.’d On Life Itself” che
dal vivo è irresistibile. Ma tutto il disco è un vero
capolavoro, i testi sono ancora più mefitici e questo causerà
non pochi problemi alla band, additata dagli integralisti religiosi
fra i primi gruppi da evitare. L’apice incendiario è
“Hot Rails To Hell”, ma ogni brano merita menzione, in
particolare io sono molto legato all’ultimo “The Mistress
of the Salmon Salt”. 10/10
Secret Treaties (Columbia 1974)
Il terzo disco è il capolavoro assoluto della band, un’opera
eccellente in ogni sua sfumatura, i brani hanno un’intensità
che è difficile da trovare altrove. A causa della copertina
che raffigura un Meshersmitt (il terribile caccia dell’aviazione
tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale) e del testo del brano
collegato “ME 262”, il gruppo viene accusato da certa
critica di avere simpatie neo naziste e questo getta una luce negativa
definitiva sulla band, tanto da allontanare dal gruppo buona parte
del pubblico. È stato un colpo durissimo e ingiustificato,
infatti il cantante Bloom è di origini ebree, che ha segnato
indelebilmente tutto il futuro del gruppo. Ci resta comunque un album
fatto di classici come “Career of Evil”, “Dominance
and Submission”, “Harvester of Eyes”, “Flaming
Telepaths” e soprattutto l’indimenticabile “Astronomy”
una ballad elettrica dall’intensità ineguagliabile. 11/10
On Your Feet Or On Your Knees (Columbia 1975)
La forza live del gruppo non poteva restare dimenticata e viene catturata
da uno dei migliori live album di tutti i tempi. Un doppio Lp che
celebra tutta la forza dei musicisti newyorkesi e che punta la track
list tutta sull’energia. Il disco si chiude con la cover di
“Born to Be Wild”, pezzo che i BÖC reinterpretano
così bene da farne un proprio cavallo di battaglia. 10/10
Agent Of Fortune (Columbia 1976)
Sarà il titolo, sarà che dopo il live niente è
come prima, ma il gruppo finalmente sfonda sulle note suggestive della
bellissima “Don’t Fear the Reaper” ed esplodono
le vendite. Ma il destino bussa ancora alle porte del gruppo, infatti
il testo del brano, che si ispira al dramma di Romeo e Giulietta,
viene accusato di istigare al suicidio… ma questa è un’altra
storia. AOF è ancora un capolavoro, il sound si fa meno duro
e diventa più sofisticato, ma ci sono brani di assoluta energia
come l’iniziale “This Ain’t the Summer of Love”
o la trascinante “Tattoo Vampire”, da non dimenticare
la presenza di Patty Smith nel brano “The Revenge of Vera Gemini”.
Altro album da avere nella propria discografia! 10/10
Spectres (Columbia 1977)
Il successo dell’album precedente stordisce il gruppo, che inizia
a subire una indegna pressione dalla casa discografica, che impone
al gruppo di sfornare nuove hit (ovvero ha scoperto che la band newyorkese
poteva essere un’autentica vacca grassa). Le sollecitazioni
non ebbero ancora un effetto disastroso e il gruppo ne uscì
con questo album che ha ancora dei momenti veramente memorabili, a
partire dalla celebre “Godzilla”, seguita dall’anthemica
“Golden Age of Leather”, senza dimenticare alcuni momenti
molto riusciti come la ballata “Death Valley Nights”,
la frizzante “Fireworks” o la spettrale “Nosferatu”,
ma resta nel complesso un album in calo. 8/10
Some Enchanted Evenings (Columbia 1978)
È un nuovo live, dal vivo il gruppo ha mantenuto tutta la sua
carica esplosiva. Si parte alla grande con la rocciosa “R.U.
Ready 2 Rock”, seguita a ruota dalla sorprendente “E.T.I.”
e poi dall’inno “Astronomy” in una delle sue versioni
migliori di sempre, da ascoltare l’assolo di chitarra davvero
da brividi. Ma ancora molto emozionante è anche “Don’t
Fear the Reaper”. Nell’album ci sono anche due cover importanti:
“Kick Out the Jams” degli MC5 e “We Gotta Get Out
of This Place” dei Frost, un ottimo gruppo ingiustamente dimenticato.
Vengono invece tralasciati tutti i classici del primo periodo, del
resto sono passati solo tre anni dalla pubblicazione del precedene
live. Un altro live album imperdibile, i BÖC dal vivo sono davvero
trascinanti come pochi altri. Da segnalare che la ristampa rimasterizzata
contiene sette brani inediti fra cui la mitica “5 Guitars”,
il momento in cui tutti e cinque imbracciavano la chitarra e si mettevano
a jammare alla grande e un dvd imperdibile dello stesso periodo. 10/10
Mirrors (Columbia 1979)
Ogni live del gruppo è stato uno spartiacque e questo disco
inaugura una nuova era del culto. Mirrors è l’album meno
riuscito e più fiacco dell’intera discografia dei BÖC,
non bisogna dimenticare però che siamo negli anni in cui imperversava
il punk e in cui tutti i gruppi storici hanno segnato il passo, rispetto
ad altri altri gruppi che hanno prodotto delle vere porcherie, questo
album non è così indegno e contiene almeno un paio di
brani veramente belli come “The Great Sun Jester” e “The
Vigil”. Fiacco ma con stile. 6/10
Cultosaurus Erectus (Columbia 1980)
Finalmente il gruppo rialza la testa con orgoglio, alla produzione
viene chiamato nientemeno che Martin Birch e per i testi troviamo
la collaborazione del romanziere fantasy Michael Moorcock (di fama
Hawkwind). Ne esce un album metallico, oscuro e tosto, un ritorno
alle origini che rilancia molto positivamente il gruppo. Ottima l’iniziale
“Black Blade” e sorprendente è il mix di hard rock
e jazz di “Monsters”, il primo lato chiude in modo un
po’ calante, ma il lato B è veramente ricco, dalla divertente
“Hungry Boys” alla grintosa “Fallen Angel”,
passando poi per la rabbiosa “Lips in the Hills” e per
chiudere con la bellissima “Unknown Tongue” con testo
di Patty Smith. 8/10
Fire of Unknown Origin (Columbia 1981)
Ecco l’album che tutti i fan aspettavano da tempo, la cura di
Martin Birch fa miracoli e ne esce il secondo capolavoro del gruppo.
Un disco bello dall’inizio alla fine e con momenti davvero indimenticabili
come l’epica “Veteran of the Psychic Wars” o l’irriverente
“Joan Crawford” con inizio neo classico da manuale. E
pensare che questo disco doveva essere la colonna sonora del film
Heavy Metal (un cult movie animato basato sulla science fiction).
11/10
Extra Terrestrial Live (Columbia 1982)
Ci siamo, ecco il terzo live ed ecco nuovi cambiamenti. Il momento
è critico, il gruppo è pronto a ripartire, ma le tensioni
interne sulle future scelte stilistiche creano una profonda divisione,
che portera alla rottura insanabile col batterista (e uno dei principali
compositori del gruppo) Albert Bouchard, seguito qualche anno dopo
dal fratello Joe e anche dal tastierista Allen Lanier (che rientrerà
in seguito). La rottura viene consumata all’inizio del tour
e Al viene rimpiazzato al volo dal roadie Rick Downey. Ma il gruppo
non sembra scalfito dal colpo e da vita ad un nuovo live superlativo,
immensa la versione di “Veteran …” e da segnalare
la presenza di Robbie Krieger nella cover di “Roadhouse Blues”.
9/10
Revolution By Night (Columbia 1983)
Il nuovo lavoro in studio getta luce sull’uscita di Al, il gruppo
ha voluto spingere su un sound più orecchiabile e “commerciale”,
viene chiamato il talentuoso Aldo Nova, che da una sferzata di grinta,
mentre l’album viene prodotto dal volpone Bruce Fairbain. L’album
è bello, fresco, graffiante, ma non sono i BÖC che i fans
hanno imparato ad amare. Il disco è bello, ma è anche
troppo leggero. Da salvare in particolare “Eyes on Fire”,
la bellissima e tenebrosa “Shadow of California” e l’anthemica
“Feel the Thunder”. 6/10
Club Ninja (Columbia 1985)
I BÖC continuano sulla strada tracciata da Fairbain e ne esce
un disco molto curato a livello di suoni, che sono davvero brillanti,
ma a mio giudizio è il disco più debole della discografia
del gruppo. Ci sono dei brani davvero belli come “Perfect Water”,
ma sono davvero troppo poco. Questo disco segna anche l’inizio
di una profonda crisi del gruppo che, anche se non si è mai
sciolto e ha continuato un’intensa attività live, non
produce nuovi album musica per ben tredici anni. 5/10
Imaginos (Columbia 1987)
Il “non” album dei BÖC e anche il loro miglior album
di tutti i tempi, forse la più intrigante rock opera fantasy
di sempre. In realtà doveva essere il primo disco solista di
Albert Bouchard, ma la casa discografica ha imposto che comparisse
il nome del gruppo e ha chiamato il resto del gruppo originale compresi
Joe Bouchard e Lanier, mentre la produzione è tornata a Pearlman,
che insieme ad Al è il vero ideatore del progetto Imaginos.
Quante cose ci sarebbero da dire su questo incredibile album, compresa
la registrazione di un intro di Stephen King che recita l’apertura
di “Astronomy”, purtroppo tagliata nella versione definitiva
(ma apparsa su un singolo promozionale del pezzo che io ho!). Non
ci sono altre parole, questo è un vero capolavoro, che non
deve mancare a nessuno. 12/10
Live 1976 (Castle Communications 1991)
Si tratta di un live semi ufficiale, uscito anche in versione VHS,
che cattura la band nel ’76, che era senza dubbio il momento
di massimo splendore dal vivo del gruppo e si sente. La band si esibiva
con un impianto laser che è entrato nella storia del rock.
Dieci classici indimenticabili, una testimonianza che non poteva restare
sepolta, la registrazione non è eccezionale, ma rende abbastanza
bene. 8/10
Bad Channel (Moonstone Records 1992)
Si tratta della colonna sonora di un horror b-movie. I primi due brani
sono nuove composizioni e mostrano un gruppo ancora capace di zampate,
in particolare la metallica “Demon’s Kiss”, ma sono
un po’ poco per i vecchi fans. Altri nove brani sono dei gruppi
Joker, Fair Game, Sykotik Sinfoney, DMT e The Ukelaliens. Il resto
dell’album è composto da brani elettronici suonati da
Donald, che sono funzionali alla visione del film. 4/10
Cult Classic (Herald 1994)
Si tratta di una raccolta di brani riarrangiati e interamente risuonati
dal gruppo, non è certo un album essenziale, ma le nuove versioni
dei classici sono spaziali. Tutti i brani sono presi dai primi quattro
album tranne “Godzilla”, Donald è al massimo della
forma e da vita ad assoli di chitarra che da soli valgono l’acquisto
del cd. “Astronomy” è fantastica, così come
“Don’t Fear the Reaper” e la trascinante “O.D.’d
on Life Itself”. 8/10
Workshop of the Telescopes (Columbia 1995)
Fra la miriade di raccolte pubblicate questa a mio parere è
l’unica che merita di essere presa in considerazione, primo
perché è la più esaustiva essendo su due cd e
poi perché è l’unica che presenta degli inediti,
la versione in studio di “Born to Be Wild” (presa dalla
b-side di un 45 giri) e delle versioni promo di “Workshop of
the Telescopes” e “The Red and The Black”. Il primo
cd è interamente dedicato ai primi tre album, il secondo al
resto della discografia fino a Club Ninja e i vecchi fans ringraziano.
s.v.
Heaven Forbid (SPV 1998)
Finalmente il gruppo ritorna e lo fa con un disco che parla al cuore
prima che all’orecchio. Ci sono dei brani riusciti e una bella
varietà compositiva, Roeser è in forma smagliante e
da vita ad assoli spettacolari, che da soli valgono il costo del cd,
in particolare è da segnalare quello dell’intensa “Harvest
Moon”. Ma tutto il disco scorre che è un piacere. Non
siamo ai fasti del passato, ma i fans riescono finalmente a soddisfare
una sete maturata da anni. 8/10
The Curse of the Hidden Mirror (Sanctuary Records
2001)
Ci voleva un seguito ad Heaven Forbid ed ecco che la band recupera
il passato (il titolo deriva nientemeno che da una canzone dei Stalk
Forrest Group) in un album riuscito solo in parte. Ci sono momenti
molto belli, il gruppo suona in modo splendido, ma la vena creativa
non è proprio al massimo. Da segnalare “The Old Gods
Return”, la rocciosa “One Step Ahead of the Devil”
o la rockeggiante “Out of the Darkness”, ma anche il bel
riffing di “Stone of Love” e la rovente “Eye of
the Hurricane”. 7/10
A Long Day’s Night (Sanctuary 2002)
Il live definitivo del gruppo, con tanto di imperdibile dvd. Non credo
di dover spendere altre parole (del resto nel sito trovate la recensione
dettagliata di questo titolo). I BÖC sono “invecchiati”,
ma sul palco continuano a fare scintille e si dimostrano in splendida
forma. Del resto il palco è un po’ come la loro seconda
casa (un loro slogan recita “On Tour Forever”). Ma visto
che in passato i live album sono sempre stati degli spartiacque per
la band, cosa dovremo aspettarci per il futuro? Per adesso è
tutto coperto dal riserbo più assoluto, però abbiamo
la possibilità di testare il polso alla band nella data romana
che si appresta il 04 giugno, la prima dopo lo storico tour italico
dell’86, un appuntamento da non perdere assolutamente! 10/10
Recensioni: Heaven Forbid; Curse
of the Hidden Mirror; Tyranny + Secret;
A Long Day's Night;
The Symbol Remains;
Ghost Stories;
50th Anniversary Second Night
Interviste:
1998; 2008
Live
Reportage: Roma
2008; Trezzo 2008;
2016
Sito Web
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