Ho
amato il sound dei Saga fin dalla prima volta che li ho ascoltati
tanti anni fa per il loro gusto epico e per le belle melodie e oggi
dopo tanti anni mi trovo a recensire il loro dodicesimo disco in studio
con un po’ di emozione.
Il titolo è abbastanza esplicito: il cerchio si chiude, viene
ripreso un vecchio logo e ritorna Golden Boy, l’insetto che
illustrava le copertine dei primi tre dischi del gruppo. Il perché
alle soglie del nuovo millennio i Saga abbiano voluto tornare agli
inizi della loro prestigiosa carriera costellata da vendite record
e da tournée sold out ci verrà spiegato nell’intervista
ora ci soffermiamo solo sul disco.
Si apre in bellezza con una canzone in pieno stile Saga: tastiere
pulite, chitarra in spolvero e i tipici cori epici. I dieci brani
si susseguono fra momenti elettrici e momenti poetici, quando ci accorgiamo
che il disco è finito sono passati cinquanta minuti in un soffio.
Non ci sono cali di ispirazione, sembra davvero che il gruppo abbia
saputo compiere il miracolo di incidere un disco fresco come se fosse
agli inizi della carriera e senza dare l’impressione di avere
confezionato una minestra riscaldata, scusate se è poco.
Voglio anche sottolineare come il gruppo abbia dalla sua un chitarrista
straordinario e fantasioso che sa arricchire i brani con virtuosismi
mai scontati o prevedibili. Il cantante d’altra parte è
molto ispirato e sembra che per lui il tempo non scorra.
Chi conosce i Saga sa a cosa va incontro, ma voglio sottolineare che
è davvero difficile restare sulla cresta dell’onda mantenendo
uno stile molto personale e inconfondibile divenuto col tempo non
solo un marchio di fabbrica ma una garanzia. GB
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